Passo sovente per andare a casa dall’incrocio tra via Buon Pastore e via Sassi, e da tempo vedo un gruppo di ragazzi, sotto un portico, esercitarsi nell’arte della break dance. Mi hanno sempre fatto pensare a quando, da ragazzino, andavo a Milano (tipo metà anni ’80) e sotto alla galleria Vittorio Emanuele vicino al primo fast food ovvero il Burgy, in pieno centro, si cimentavano in queste danze che allora per molti erano ancora un oggetto misterioso e senza un significato preciso.

Come scrive Ian Chambers in un suo saggio:

“Nei sogni e nei suoni, della città, dall’altra parte della notte, nell’incorporazione nel disegno delle nostre vite, incominciano a recepire altri ritmi, altre pulsioni, altri desideri che vanno a confluire nei linguaggi metropolitani per far emergere altri stili, altre storie, altre identità”
(cit. tratta dal libro “Tribes Scribes”, 1993).

L’impulso di fermarmi per conoscerli è sempre stato forte. Non so cosa mi spinga, credo sia questa capacità che il ballo ha in generale di esprimere forse più di tanti altri linguaggi l’energia del nostro corpo, mettendo in luce le nostre nevrosi ma anche le nostre sensualità.

Un sabato soleggiato di settembre ci mettiamo d’accordo per incontrarci, per una chiacchierata. Arrivo e trovo già una bella atmosfera fatta di prove, di nuove figure e di sorrisi. Una vera manna per me. La musica che emana una piccola cassa in bluetooth passa dalla old school a pezzi molto attuali, rimanendo sempre sul filone rap-hip hop e r&b. I ragazzi mi accolgono subito nella loro crew, la Slow Mo Crew (dove Mo sta per Modena): si chiamano così perché arrivano quasi tutti in ritardo sul ritrovo per gli allenamenti. La Slow Mo è composta da Shin, 21 anni, origine italo cinese, Harrison che ne ha 24 ed è ganese, Anthony, 21 e anche lui ganese, Ayoub, 21 anni di origini marocchine e, infine, Eskander, che ne ha 18 e viene dalla tunisia. Può suonare retorico, ma credetemi: vedere un bel mix di culture e di visi a me fa star bene e fa pensare che il futuro sia qui, in questi ragazzi. Alcuni di loro lavorano, altri studiano come Ayoub, altri ancora sono in attesa di un’occupazione… se c’è una cosa che li accomuna è star bene insieme ballando, e comunicare agli altri la loro storia, la loro sensibilità e la loro energia.

Inizio con la domanda più semplice: “Secondo voi dove nasce la break dance?”. Loro rispondono in maniera giusta, con una piccola sbavatura sulle date, ma che trovo, vista la tenera età, nulla di che: “È nata nei ghetti di NYC per sanare in maniera pacifica i conflitti tra gang rivali, a forza di battles dove nessuno veniva ucciso!” ( sull’argomento ci sono svariati film, primo tra tutti Wild Style e poi, per fare un salto nel 2016, caldeggio, anche se molti puristi l’hanno tacciato di essere troppo ‘mainstream’, la serie tv su Netflix The Get down, che è un buon lavoro di edutainment, ovvero unire la forte potenzialità di una storia vera e il puro intrattenimento, il tutto condito con storie di amore e di criminalità).
Chiedo se le battles ora possono essere risolutive e riappacificatrici tra le crew, e loro rispondono che ora la situazione è diventata pesante e non esiste più un vero codice etico e sportivo della strada… poi Shin fa un distinguo: “C’è chi prende il breaking solo come mera vetrina per esibirsi e poi c’è chi, come noi, la sente come una vera disciplina…”. Ora non si chiamano più battles ma contest, e pare che la Slow Mo Crew abbia voglia di aumentare la sua presenza a questi contest a livello regionale e nazionale. Chiedo ai ragazzi se conoscono altre crew in zona, la risposta non è precisa: Ayoub dice che ce ne sono, invece Anthony sostiene che non ce ne sono tante… spunta il nome dei ‘Legend’ di Castelvetro. Da loro, prosegue Shin, le porte sono aperte a chiunque, sia per chi già ama questo genere sia per chi vuole avvicinarsi e impararlo.

I ragazzi sanno cos’è l’hip hop e Harrison ne fa vari distingui. Gli altri lo seguono: tutti iniziano con un name dropping da fa girare la testa, ma che chiuso il cerchio è sempre hip-hop, rap.

Ma queste cose riportate a Modena che senso hanno? Loro rimangono un po’ ammutoliti… e io rimarco. Così si aprono: hanno constatato che quando (vigili permettendo) portano i loro spettacoli in centro, la gente pian piano si incuriosisce e inizia a pensare che forse forse non è poi una cosa così sbagliata dare la possibilità ai propri figli di esprimersi.

https://www.youtube.com/watch?v=pR1EWlNyidY

Poi si parla del fatto che Modena che è piena di finti rapper, fuckin poser senza arte né parte, ovvero gente che di autentico non ha nulla e si atteggia a voler essere quello che in realtà non è. “Perché – come dice Harrison – è un modo per non fare nulla di concreto, in pochi  fanno quello che fanno per trasmettere un messaggio”. Poi mi racconta che lui ha iniziato da bambino a ballare guardando i video di Michael Jackson, e qui mi è scesa una lacrimuccia… perché ho sempre ammirato Jacko, perché senza la passione non c’è nulla… vuoto pneumatico, pare che l’argomento sia molto sentito tra di loro. A volte sono più ‘moraliste’ le nuove generazioni della mia (io ho 54 anni, n.d.r.). Andiamo avanti così, parlando di autenticità e della possibilità che una città possa rinascere anche attraverso queste espressioni. Finisco queste chiacchierata parlando di sneakers: tre su quattro di loro portano le Puma, ma nessuno sa che sono state le più usate nell’old school.

A un certo punto li vedo che scalpitano: Anthony, che insieme ad Ayoub ha parlato meno, mi sfida dicendomi: “Io non amo parlare, mi esprimo con il mio corpo”. Non ha tutti i torti.