Il 23 Maggio 1981, Jean-Michel Basquiat fece la sua prima personale in Europa, a Modena, presso la galleria d’arte contemporanea Mazzoli. In occasione di questo importante anniversario abbiamo deciso di dedicare qualche approfondimento alla tappa modenese dell’artista.
Inauguriamo questa serie di appuntamenti con l’autrice de “L’opera struggente a Modena di un genio formidabile: Basquiat” e “Basquiat. Viaggio in Italia di un formidabile genio”, Anna Ferri.
Anna Ferri, giornalista e autrice modenese è figlia d’arte: suo padre, Fausto Ferri, per anni è stato responsabile degli allestimenti alla galleria Civica di Modena; sua madre, Rossana Sghedoni, prima di aprire un suo spazio è stata per anni assistente di Mazzoli.
“Da qualche parte, nel mondo, c’è un enorme quadro che ritrae mia madre con un casco di banane, fatto da Jean-Michel Basquiat – sì, proprio lui – che vale milioni di dollari”.
Proprio da questo racconto famigliare Anna decide di ricostruire il soggiorno italiano dell’artista cucendo aneddoti, interviste, articoli e testi biografici, proponendoci una narrazione che è un su e giù tra fatti noti e alcuni un po’ meno, il tutto unito dall’abbraccio di un personaggio immaginario, Alba.
Il racconto di Anna Ferri inizia dalla notte di San Valentino del 1981 a New York, quando il giovane artista allora conosciuto come SAMO, acronimo di Same Old Shit, ideato da Jean-Michel Basquiat e da Al Diaz durante gli anni delle superiori, espone le sue opere alla mostra “New York/ New Wave” a Long Island. Lì il gallerista Emilio Mazzoli lo nota: pochi mesi dopo era a Modena per la sua prima personale in Europa.
Basquiat, l’artista che arriva a Modena a vent’anni, con i dread, la vernice addosso e uno stereo sulla spalla, con tratti velocissimi e ossessivi traduce in pittogrammi simbolici, intrinsechi di codici culturali, quello che passa davanti ai suoi grandi occhi neri.
Dall’incidente da piccolo dal quale rimarrà l’ossessione per l’anatomia e la struttura ossea, alle maschere e feticci africani vudù delle origini haitiane del padre, alle visite al MOMA di New York con la madre, delle quali amerà colori e sintesi delle forme di Matisse e odierà l’assenza di artisti neri.
NEW YORK, JAZZ, POLLO FRITTO, INDUSTRIAL, CHARLIE PARKER, VUDÙ, SUGAR RAY, TECHNICOLOR, SOAP, THERE ARE NOT BLACK ARTIST IN A MUSEUM.
Parole, frasi, in maiuscolo; urlate, spezzate, mischiate, giocate.
Un’espressione artistica compulsiva e ossessiva, un linguaggio che mastica una società che poi vomiterà; la stessa società che lo condannerà a morte nel 1988, a soli ventotto anni per overdose da eroina.
Figlio di madre portoricana e padre haitiano, in un periodo in cui l’ipocrisia nixoniana prima, reaganiana poi, nei confronti degli afroamericani raggiunse l’apice della storia recente.
Le lotte violente fra gang, punta dell’iceberg di politiche sociali economiche fallite, le repressioni altrettanto violente di una polizia bianca che con il casco e il manganello carica davanti alle proteste dei neri armati di cartelli con scritto I AM A MAN.
Questo clima, queste ingiustizie, queste ipocrisie, questa frustrazione definiscono gran parte della rabbia di Basquiat, rabbia che fomenterà la voglia di una rivincita immediata.
La consapevolezza che sarebbe diventato qualcuno lo induce ben presto a bazzicare a Soho, quando scabottando la scuola segnava i muri delle gallerie con scritte come: “SAMO COME LA FINE DI TUTTA QUESTA MERDA”.
Anna ci racconta un Basquiat giovanissimo, vicino a un successo non ancora raggiunto.
L’artista disegnava sulle grandi tele dello stesso formato di Mario Schifano di giorno, mentre di notte cercava un po di divertimento con le ragazze che incontrandolo per strada o allo Snoopy la sera gironzolavano in via Nazario Sauro sperando di vederlo uscire dalla galleria di Emilio Mazzoli.
È da poco uscito “Basquiat. Viaggio in Italia di un formidabile genio” a distanza di tempo da “L’opera struggente a Modena di un genio formidabile: Basquiat”. Cosa ti ha fatto decidere di scrivere un racconto su quella che era una tua personale ricerca di due anni prima.
La mia ricerca del quadro di Basquiat che raffigura mia madre non è mai terminata.
Dopo la pubblicazione sul Dondolo mi sono trovata fra le mani una pubblicazione della Taschen in cui era presente la foto di un dipinto che assomigliava tantissimo alle descrizioni che per anni ho sentito in casa; così ho deciso di scrivere alle persone che ai tempi lo frequentavano per averne notizie.
Chi non ti ha risposto?
Faccio prima a dirti chi mi ha risposto, ma quando si parla di un nome del genere tutto diventa più difficile; penso anche che tante persone magari non guardino spesso la mail e i social.
Devo dire che, in generale, è scattato un bel meccanismo di vicinanza: chi pensa di avere un’informazione sul quadro mi scrive, i social aiutano in questo soprattutto durante una pandemia. La ricerca sta funzionando di più dopo la pubblicazione del libro.
Anna, tu sei una giornalista; come mai hai scelto la forma del racconto?
È stata una forzatura rispetto la mia formazione professionale, volevo farlo nella maniera più veritiera possibile ma le mie ricerche su Basquiat sono circoscritte al racconto.
Quando i miei genitori hanno conosciuto Jean io non esistevo, quello che ho scritto si basa su testimonianze e racconti di altre persone: il rischio di imprecisioni e fraintendimenti è dietro l’angolo. Non volendo mettere in difficoltà nessuno ho optato per questa forma.
A parte un personaggio, Alba, che è anche il nome che i tuoi genitori scelsero inizialmente per te, tutti gli altri sono reali, giusto?
Si, anche se ho preferito cambiare i nomi ma si ritrovano le corrispondenze nella prefazione. Posso dire che per me è stato importante descrivere i personaggi il più simile possibile alla loro reale personalità.
Alba, proprio perché personaggio non reale, è libera di essere ciò che vuole: non deve render conto a nessuno, e allo stesso tempo non mi espone a querele.
Nella prefazione del libro c’è un passaggio in cui chiedi ai tuoi di cosa parlavano, del tipo: “di filosofia, arte cose fighe” e hai ottenuto un secco “eravamo giovani palavamo di sciocchezze”. Spesso ci capita di idealizzare conoscenti o i genitori quando avevano la nostra età. È dovuto al fatto che hanno vissuto anni di attivismi e cambiamenti? A una distorsione della prospettiva storica?
Ah ah, si! Questa risposta secca è di mio padre, la ricordo perfettamente.
Si, è dovuta a tutto questo ma anche allo scompenso che si crea quando si tenta di immaginarsi i propri genitori a vent’anni, si fa sempre fatica, il libro mi ha aiutato molto in questo.
Questa frase che da subito placò i miei entusiasmi si è poi rivelata decisiva.
Perché decisiva?
Da quel momento ho capito che prima di tutto erano ragazzi: avevano vent’anni e per quanto avessero la fortuna di vivere in un ambiente stimolante erano ventenni che facevano discorsi da ventenni.
Ho voluto raccontare il loro rapporto come può essere il rapporto di ragazzi di quell’età che semplicemente parlano, si conoscono.
Siamo stati anche noi ventenni e le ore di sera a parlare davanti a una birra le abbiamo passate tutti: ho pescato in un immaginario collettivo di adolescenza.
Alba e Jean hanno un rapporto particolare, come quei rapporti che non si vuole definire perché alla fine funzionano anche così.
Il rapporto fra lui e Alba è così perché non ho sentito la necessità di inserire del sesso dato che nel libro la tematica ha già ampiamente un suo spazio.
Ragazze stese ai suoi piedi fuori dalla galleria, allo Snoopy, alle cene da conoscenti, ovunque lui andasse.
Racconti Basquiat in maniera molto intima.
L’incontro con Jean-Michel è archeologia familiare per me: se ne è sempre parlato e questo mi ha permesso di raffigurami in parte la sua personalità.
Mi è servito molto il libro scritto da Jean Clement, amica della ex morosa storica di Basquiat, Suzanne Mallouk, la stessa morosa con cui venne in Italia. Lei era una figa pazzesca; ha menato Madonna in una serata fuori da un club!
Nel libro racconti che Mazzoli conobbe Basquiat alla mostra intitolata “New York/New Wave”. C’erano artisti del calibro di Mapplethorp, Holding, Haring e alcuni writers quali Fab 5 Freddy e, per l’appunto, Basquiat quando ancora era SAMO. Sai dirci come arriva a quella mostra? Chi puntava?
La mostra New York/New Wave del 1981 era attesa come un vero e proprio evento e lo stesso Andy Warhol aveva accettato di partecipare.
La P.S.1 – Public School 1 di Long Island – una vecchia scuola dismessa e utilizzata per esposizioni era diventata il teatro dove il curatore, Diego Cortez, aveva allestito il suo personale ritratto della scena underground e post punk newyorkese. Già questo sarebbe stato sufficiente per attirare l’attenzione di Emilio Mazzoli che è sempre stato attento ai nuovi linguaggi.
Non dimentichiamo che pochi anni prima nella sua galleria di Modena prendeva vita la Transavanguardia, il movimento teorizzato da Achille Bonito Oliva. Ad aumentare l’interesse di Mazzoli c’era l’amicizia con il curatore, Diego Cortez, che gli presenterà JMB proprio quella sera e la telefonata di Sandro Chia, una vera rockstar della scena internazionale, di stanza a New York, amico di Mazzoli e rappresentante della Transavanguardia, che gli suggerisce di andare alla mostra e prestare attenzione ad un certo Samo.
Quella sera, oltre a Mazzoli, erano presenti anche i galleristi Annina Nosei e Bruno Bischofberger, che negli anni successivi avranno un ruolo fondamentale nell’ascesa di JMB, Edit DeAk, una delle prime critiche a scrivere del giovane artista, e René Richard, che nel dicembre del 1981 pubblica su Artforum il famoso articolo “The radiant child”.
Proprio questi due critici, oltre a Diego Cortez, avrebbero dovuto poi scrivere i testi del catalogo della seconda mostra di JMB da Emilio Mazzoli, quella che poi saltò.
Racconti di una reazione un po’ borghese e razzista durante la prima, e unica, inaugurazione della personale di Basquiat a Modena da Mazzoli. Non tutti erano pronti?
Quasi nessuno, a dire il vero. Al vernissage andarono pochissime persone e la maggior parte di loro giudicarono opere e artista con frasi razziste.
Era un linguaggio completamente nuovo, Basquiat era un artista completamente nuovo e credo che il valore di Mazzoli, come gallerista ed essere umano, sia stato quello di non aver paura di sfidare un sistema. Non aver paura del fallimento.
Portare avanti la novità, il futuro, la scoperta non è mai semplice. Lui lo fece e alla fine, nonostante il fallimento del vernissage, vinse. La mostra fu completamente venduta, chi acquistò allora un’opera di Basquiat “a cifre che si potevano permettere anche gli operai”, come dice sempre il gallerista, non può non averlo considerato il migliore affare della vita.
Chi ha criticato, puntato il dito, discriminato, alla fine si è ritrovato travolto solo dalla propria personale paura di venire spazzato via da un vento nuovo, di quelli che non si possono fermare quando arrivano.
Dai racconti dei miei genitori, uno degli artisti che invece si fermò a osservare e apprezzare le opere fu Franco Vaccari, che l’anno prima aveva portato la sua “Esposizione in tempo reale” alla Biennale di Venezia e continua a essere, ancora oggi, uno degli artisti italiani contemporanei più importanti.
Pare che Mazzoli si sia sempre prodigato per esaudire le richieste di Jean, come quando chiese di poter dipingere un muro a Modena in via Fleming senza ottenere i consensi del comune.
Emilio Mazzoli fa parte di quella scuola di galleristi che costruiscono relazioni con gli artisti: confronto, costruzione di progetti, dialogo. Un percorso di crescita che, per quello che ho potuto vedere anche nell’esperienza di mia madre quando ha avuto la sua galleria, arricchisce entrambi e crea rapporti, relazioni che a volte vanno oltre il lavoro, diventano amicizie.
A questo, forse, si aggiunge la cultura dell’accoglienza emiliana dove si aprono le porte di casa, si fanno entrare le persone nell’intimità della propria vita affettiva. JMB ha spesso pranzato e cenato a casa di Mazzoli, ci sono anche un paio scatti fatti in quelle occasioni, che raccontano bene il clima.
Quando JMB chiede al gallerista di poter dipingere su quell’enorme palazzo di via Fleming, Mazzoli accoglie la sfida perché la vede come una cosa di valore che potrebbe arricchire la città, oltre ad essere oggettivamente una cosa positiva per la mostra. Si torna al discorso della visione del futuro, della non-paura di osare guardando sempre avanti. Modena, però, non è New York. Politiche culturali sulla street art arriveranno anni dopo.
Chissà, magari com’è stato per la Taschen qualche altra pubblicazione ti avvicinerà al quadro e regalerai a noi un altro pezzetto di vissuto a Modena.
La mia ricerca continua e credo che la pubblicazione del romanzo possa darle qualche chance in più. Ricevo messaggi dove mi segnalano di aver visto il quadro in altre pubblicazioni ed è emozionante vedere che la storia ha appassionato, che persone che non si conoscono cerchino di aiutarmi a mettere insieme nuovi indizi.
Magari, prima o poi, ci saranno nuovi capitoli da scrivere.
Prossimi progetti?
Questa storia era nella mia testa come un film, forse anche in maniera inconsapevole da tempo. Molto probabilmente sarebbe rimasta lì se Beppe Cottafavi non mi avesse chiesto di farne un racconto per Il Dondolo e poi Francesco Aliberti un romanzo per la sua casa editrice, seguendomi passo a passo in quella che per me è stata la prima avventura letteraria.
Questa piccola esperienza mi ha fatto comprendere che prima nascono le storie, poi i libri. Ecco, per ora credo mi godrò la compagnia di JMB.
E ora, un appello ai lettori: se tra di voi c’è qualche lettore che potrebbe aver notizia di un quadro di Basquiat con una donna con capelli ricci e neri e di fianco un casco di banane, scrivete a jou@mocu.it o contattate direttamente Anna Ferri.