Ho incontrato Letizia Cappella, mediatrice culturale del patrimonio artistico che lavora nella sezione Comunicazione e Didattica dei Musei Civici di Modena. Abbiamo avviato una riflessione su ciò che sta accadendo in questi giorni agli spazi culturali e ai musei.
E se questa situazione di emergenza si rivelasse un’opportunità da cogliere?
Ciao Letizia, puoi spiegarmi in poche parole cosa significa essere una mediatrice culturale?
In poche parole non è facile, ma ci provo. Il mediatore culturale non è una guida turistica, ma un esperto culturale, che fa da ponte tra l’opera d’arte e il fruitore di qualsiasi età e di qualsiasi estrazione sociale. Per farlo deve tenere conto di tutte queste caratteristiche perché è importante raccontare qualcosa a cui le persone possono essere interessate nella loro vita quotidiana. Non si tratta semplicemente di informare, ma di narrare e raccontare facendo in modo che nelle persone possa rimanere il ricordo di ciò che hanno sentito e che tutto ciò venga com-preso, cioè preso dentro le loro vite, rielaborato e riadattato. Per fare questo si parte dall’idea che l’opera sia aperta e quindi tutta da interpretare.
Possiamo dire che il tuo lavoro è capire chi hai di fronte e comunicare certe informazioni in un certo modo.
Esatto, non è solo un semplice trasferimento di informazioni passivo, ma anche un coinvolgimento delle proprie vite. Io posso raccontare un quadro non solo spiegandolo, ma anche raccontando qualche episodio particolare della vita di quell’autore. L’importante è che io trovi quel particolare che so che può interessarti in modo tale che tu non possa più dimenticare l’esperienza vissuta.
Anche oggi parliamo di comunicazione. Lavorando all’interno di un museo, come vedi la situazione in questo momento di emergenza?
Da appassionata, ma anche da studiosa, della comunicazione nell’arte, posso dire che in questo particolare momento la realtà si divide in due gruppi: ci sono quei musei che hanno sentito l’esigenza di comunicare fuori da loro stessi e quelli che invece hanno deciso di aspettare “che passi la notte”. Qual è la conseguenza nel secondo caso? Si finisce per piangersi addosso. C’è un grosso problema di fondo: ormai ci siamo abituati al fatto che la cultura si trova in difficoltà, che è necessario attendere che qualcun altro si faccia portatore di soluzioni. Questo atteggiamento non porta nessun beneficio e nessuna crescita, ma soprattutto non porta ad un’auto-analisi da parte dei musei. A questo problema si aggiunge quello attuale del Coronavirus, che affligge tutto il nostro mondo: dalla salute, alla scuola, all’economia, fino alla cultura, che sta soffrendo moltissimo.
Una delle cause è che la maggior parte dei musei si appoggia per lo più a collaboratori esterni e partite Iva e, in momenti come quello che stiamo vivendo, sono proprio questi a rischiare di rimanere a casa, causando conseguentemente un forte rallentamento di tutta la macchina. C’è però anche una buona fetta di realtà museale che sta reagendo. Potremmo quasi dire: era ora che succedesse qualcosa! È ovviamente un paradosso, ma forse doveva scatenarsi un evento tanto grave da mettere i musei con le spalle al muro per far capire che serve un altro metodo comunicativo.
Nella situazione di emergenza attuale quello che dovrebbero fare gli spazi culturali è accorgersi del gap che devono per forza tentare di colmare. Se non lo stanno ancora facendo, è importante che diventino consapevoli che adattarsi al cambiamento può essere un’occasione?
Questa è certamente un’occasione enorme, vedo già diverse reazioni da parte dei musei, ma sono ancora troppo poche secondo me. È stato lanciato un hashtag importante qualche settimana fa: #resistenzaculturale. Effettivamente serve una resistenza. È come se fossimo in un momento di rivoluzione e la rivoluzione va portata avanti. C’è chi non la porta avanti, ma a questo punto diventa una scelta, e chi invece decide di cavalcare l’onda e adattarsi al cambiamento. Anche perché dobbiamo renderci conto che le cose non possono rimanere sempre così, oggi è un virus ma domani può essere qualcos’altro.
Che cosa intendi quando dici che le cose non possono rimanere così?
Intendo che il museo è abituato ad essere una scatola; questa scatola contiene qualcosa ed esiste solo se viene aperta da qualcuno, solo se subisce un’azione, sostanzialmente aspetta il pubblico. Nel momento in cui il pubblico non c’è, o non può esserci, la scatola rimane chiusa. E questo non può succedere. Perché l’ICOM (International Council of Museum, ndr) parla chiaro: il museo deve essere accessibile a tutti e sempre!
Quindi nel momento in cui non può essere accessibile fisicamente deve rendersi accessibile in altre modalità?
Certamente. Io spero che questo momento difficilissimo faccia riflettere anche su un altro argomento: l’accessibilità fisica. E, laddove non fosse possibile, a maggior ragione il museo deve essere accessibile virtualmente. Gli strumenti ci sono tutti. Nel momento in cui non si utilizzano o non ci si impegna ad inventarne di nuovi, allora diventa una questione di volontà. Perché secondo me non c’è scusa che regga, neanche la questione economica.
A proposito di economia: anche i musei sono aziende alle quali bisogna portare dei vantaggi economici. Concretamente, in che modo una strategia di comunicazione ben studiata può portare dei benefici anche a livello economico in un museo, come in ogni spazio culturale o espositivo?
Nell’ideologia popolare per tutti noi l’arte è una cosa bellissima e poetica. Vai al museo per imparare e rilassarti, ma guarda caso mai per divertirti. Dovremmo invece provare a cambiare il punto di vista.
Il museo è un’azienda in cui a volte c’è molto poco di poetico, e questa cosa va compresa soprattutto all’interno. Si parla tantissimo di guadagni, di prestiti, di accordi e si parla molto poco di arte. Se si considera il museo come un’azienda si capisce anche che deve far sprofondare le sue radici nel territorio ma soprattutto espandersi, e, per fare questo, ha bisogno di avere al suo interno un settore che si occupi esclusivamente della comunicazione e del marketing nell’ottica di creare un’identità. La prima cosa a cui si pensa quando si realizza una strategia comunicativa sensata è che questa debba portare dei soldi ma se si parte così secondo me si parte male.
Prima di tutto la strategia comunicativa deve fare in modo che circolino persone: deve coinvolgere, incuriosire. Non importa che poi vadano a prendersi un caffè o che entrino nel museo per prendere una bottiglia d’acqua, fare un giro e andare via: ciò che importa secondo me è che si crei un circolo. A partire da questo circolo allora si avvierà sicuramente il risvolto economico. Il museo è inserito in una città, in una comunità e, se attorno al museo circolano molte più persone, è la città che si arricchisce e ne trae vantaggio. Ci sono molti musei che non hanno un biglietto di ingresso e ci si potrebbe domandare quindi come facciano a non soccombere. Ma se si crea una mescolanza di più soggetti intorno al museo è più probabile che le persone arrivino nella città, spendano soldi in quella città, ed è più probabile ricavarne un beneficio economico in un secondo momento.
Tutto questo suona molto bene nella teoria, ma come si può fare a creare un circolo di persone e “clienti affezionati” se i musei, a parte alcune mostre temporanee, propongono sempre le stesse cose nella collezione permanente? Chi torna nel museo dopo averlo già visitato una volta?
Nel momento in cui il museo, come ogni spazio culturale, fa un’analisi sulla propria identità, la quale può durare tantissimi mesi, succede che, proprio perché è concentrato sulla propria natura, deve trovare dei metodi per far sì che le persone tornino.
Faccio un esempio per fare chiarezza: tutti sappiamo che i musei hanno uno o più depositi. Io ci sono entrata tante volte, sono ambienti impolverati e bui con opere ovunque, così come lo immaginiamo. Sono andata recentemente alla Pinacoteca di Brera, non c’ero mai stata. Hanno fatto una cosa intelligente e innovativa, ma veramente semplice. La Pinacoteca ha delle stanze molto ampie, ma non ha posto per creare un deposito. Fino a diversi anni fa le opere che non venivano esposte erano accatastate in una stanza: parliamo di opere di Morandi, di pittori dell’Ottocento, opere conosciute. Il personale museale ha quindi inserito dei semplici espositori trasparenti nelle sale, con all’interno delle reti sulle quali sono stati appesi i quadri. In questo modo passeggiando nella Pinacoteca si può vedere sia la collezione permanente che le opere del deposito. Questi espositori vengono cambiati circa ogni sei mesi, quindi tornando alla Pinacoteca puoi vedere opere diverse tutte le volte. Se non ci sono gli spazi invece si possono trovare altre soluzioni. Ad esempio, se le sale sono piccole e ci sono molte opere da esporre, si potrebbero “svelare” in un deposito virtuale sui social? Creare quindi una strategia comunicativa con la quale fissare un appuntamento settimanale per scoprire un’opera d’arte.
Si tratta quindi di parlare più amichevolmente con il pubblico rendendolo “famiglia”. Non pensi che la maggior parte dei musei potrebbe pensare che un’operazione sia de-istituzionalizzante?
Non credo assolutamente si perderebbe la funzione e l’importanza istituzionale. Sarà poi nelle mani del museo stabilire un limite, se proprio vogliono darselo, ed eventualmente creare altre attività e delle proposte che abbiano uno spirito più istituzionale. Ma la mia opinione è che accorciare le distanze tra il museo e il visitatore può fare solo bene. Si tocca anche un altro grande problema: di solito, ad esempio, si è molto più predisposti ad andare alla mostra degli Impressionisti o in un bel museo dell’Ottocento, piuttosto che al Museo del Novecento, al Mambo o al Maxxi. Anche per questo è fondamentale ridurre le distanze tra museo e fruitore, per far sì che il visitatore si senta meno “ignorante”, meno “fuori”: bisogna farlo entrare “dentro”, ed è poi la missione che si riconosce al mediatore culturale. Il museo non deve avere paura di perdere credibilità. Il museo deve preoccuparsi solo di evitare una cosa: di essere percepito come tomba dell’arte.
Parliamo quindi dello spazio museale e della situazione di oggi nella quale il pubblico non può andare al museo: si può fare cultura in assenza di uno spazio reale della cultura?
Partiamo dal presupposto che l’opera d’arte esiste se viene guardata. La presenza umana all’interno di un museo fa in modo che il museo respiri ed esista. Ci sono dei musei che effettivamente hanno senso e danno una carica emotiva all’essere umano solo se l’essere umano partecipa, mi vengono in mente ad esempio il museo della Shoah di Berlino, il Maxxi di Roma. Sono musei che presuppongono una chiara partecipazione attiva. Non voglio assolutamente dire che nel museo può anche non entrare più nessuno. Come abbiamo detto prima dentro e attorno al luogo culturale deve esserci un circolo, una comunità di persone. Questo però non significa che non possa esistere anche un pubblico virtuale. E questo discorso va oltre la situazione attuale. Prendiamo il pretesto di questo momento per trattare argomenti che dovrebbero essere scontati e basilari. Gli strumenti ce li abbiamo. Senza pubblico presente fisicamente la cultura si può fare: ci sono i webinar, le visite guidate in streaming, gli appuntamenti. Se io so che, ad esempio, alle sei di oggi pomeriggio c’è la visita guidata in una certa stanza del museo, posso collegarmi liberamente e senza sforzi. E lo posso fare in una situazione di emergenza coronavirus o no. Quindi sì, esiste un pubblico fuori dal museo ed è forse di gran lunga più ampio di quello che effettivamente ci entra. I musei virtuali si possono realizzare, come ha fatto ad esempio Google Arts, ma non vanno a sostituire quello fisico. I musei devono lavorare per percorrere entrambe le strade: creare una comunità fisica e creare una comunità digitale.
Per concludere, possiamo dire che si può trovare un lato positivo in questa situazione di emergenza pensando a quei musei che potranno evolversi e migliorare la propria comunicazione aumentando la loro comunità?
Io ho già notato sui social una presenza molto più attiva e costante. Ora la cosa migliore da fare è approfittare di questo momento, che purtroppo non sappiamo quanto durerà, per realizzare un’analisi museologica sulla natura del museo e sulla natura del proprio pubblico. Poi l’unico modo per far sì che avvenga un successo è iniziare. Farlo e soprattutto farlo in modo costante. L’appello che faccio a tutti i centri culturali, i musei, gli enti è di dare importanza al management culturale e di creare uno staff che si occupi solo di comunicazione e inoltre, smetterla di pensare che fare comunicazione si limiti al “dire” qualcosa attraverso un comunicato stampa o una newsletter. Fare un investimento sulla comunicazione digitale è fondamentale. Ora o mai più.