Massimo Mezzetti è nato a Roma, si è trasferito a Modena circa trent’anni fa e oggi vive e lavora a Bologna. Studi umanistici e teologici alle spalle, si è votato sin da giovane alla politica, quando la politica era vissuta in altro modo rispetto ad oggi. La sua passione è sempre stata nel campo della cultura e il suo impegno amministrativo si è sempre concentrato su questo.
Ha concluso da poco la sua esperienza come Assessore alla Cultura, Politiche giovanili e Politiche per la legalità della Regione Emilia-Romagna.
Ho avuto il piacere di intervistarlo per ragionare, con un punto di vista privilegiato, sull’attuale situazione e in modo particolare sulle prospettive future. Con MoCu ci stiamo confrontando con molte realtà culturali (qui la raccolta delle interviste realizzate, ndr) che solitamente concentrano la loro comunicazione prevalentemente sugli eventi, ma in questo momento, mancando gli eventi, ci siamo accorti di come invece non manchino gli argomenti: siamo tornati a parlare dell’essenza degli spazi, dei progetti che stanno alla base di queste realtà o degli “attori” che, pur essendo parte fondamentale del meccanismo, sono spesso sconosciuti ai più.
L’amministrazione viene spesso coinvolta nell’ambito dei singoli eventi, ad esempio su richiesta di patrocinio. Può essere questo un momento fertile per riaprire un dialogo capace di andare oltre la singola data e creare un percorso di programmazione approfondito e condiviso?
Io posso evidentemente parlare per quella che è stata la mia esperienza e, in questo senso, credo di poter dire che come Assessorato regionale ci siamo quasi sempre mossi in questo senso, per lo meno con i soggetti più consolidati e interlocutori delle leggi di sistema (Legge 13 sullo spettacolo dal vivo, La legge sulla memoria, la legge sul cinema e quella sulla musica).
Ovviamente questo ha riguardato anche la nostra relazione con i Comuni. Si è sempre cercato di andare oltre l’evento specifico e, in un ambito di programmazione collaborativa, di definire indirizzi e strategie condivise all’interno delle quali incardinare i singoli eventi, il tutto nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza nelle scelte artistiche.
Sul piano comunicativo invece, non sempre si è riuscito a riportare questi metodi di lavoro. Ho sempre affermato che il tessuto culturale e creativo in questa regione è uno dei più ricchi e vivaci, “spalmato” su tutto il territorio, dal piccolo paese del piacentino all’ultimo (in termini geografici) dei comuni della Valmarecchia. Non abbiamo un patrimonio culturale e di attività creative e artistiche concentrate solo nel capoluogo di regione o di provincia. Questa è una straordinaria ricchezza che però si mette ancor più in risalto se è in grado di essere comunicata nel suo valore di sistema. Ecco perché nell’autunno del 2018 mettemmo in campo una faticosissima ma entusiasmante esperienza, la settimana di Energie Diffuse: la chiamammo “onda arancione”, attraversò l’intero territorio regionale con centinaia di iniziative programmate e comunicate nella loro identità di “comunità” culturale regionale. Un’esperienza straordinaria che ha arricchito (non materialmente, s’intende) prima di tutto chi ha contribuito a realizzarla e che credo andrebbe ripetuta periodicamente fino a far diventare questo un metodo di lavoro ordinario e non straordinario.
Assessori alla cultura di altre città stanno firmando una richiesta di interessamento alla grave situazione che coinvolge i lavoratori della cultura e dello spettacolo. La questione però non nasce con questa emergenza e, ora, è più evidente anche a chi non è parte della filiera. Al di là delle misure emergenziali per il sostegno al reddito, pensa ci sia la volontà di affrontare questo problema?
Il sistema culturale e creativo di questo Paese ha sempre vissuto una condizione di figlio di un Dio minore, a partire dalle condizioni di lavoro e di reddito dei suoi operatori. In qualunque altra parte dell’Europa o del mondo, a chi lavora nel campo artistico o culturale e creativo in genere è riconosciuto uno status di lavoratore a tutti gli effetti, con tanto di diritti contrattuali e benefici contributivi. Da noi, ancora oggi, è invece visto come qualcuno che esercita un’attività di intrattenimento per sé e per gli altri e, in quanto tale, quasi un’attività hobbistica. Non ci sono ammortizzatori sociali adeguati in tempi di crisi, in caso di calamità naturali o, come in queste settimane, sanitarie. Si è privi di tutele che garantiscano un reddito stabile, una posizione previdenziale dignitosa. Questo non solo nei casi straordinari, ma tutti giorni, tutti i mesi dell’anno. All’attore, come al musicista, non sono riconosciuti in termini contributivi e come giorni lavorativi quelli dedicati alla formazione, alla preparazione o alle prove, ma solo le ore sul palco. Il che vuol dire, nel migliore dei casi (pochi) 40 giorni all’anno.
Francamente non sono molto ottimista sulla volontà, da parte dell’intero sistema e dei governi, di affrontare questioni che riguardano il senso e il valore che dobbiamo saper dare alla cultura, al sapere e alla conoscenza di cui, le forme artistiche e non solo, sono parte fondamentale. Ci vorrebbe un movimento che partisse dagli stessi soggetti interessati che, organizzandosi, smettessero di delegare ad altri la loro rappresentanza e si facessero protagonisti in prima persona delle loro istanze a livello politico ed istituzionale. Perché questo accada il mondo degli operatori culturali e degli artisti dovrebbe superare le invidie e le competizioni, gli individualismi e gli egoismi che spesso ha contraddistinto le relazioni fra loro. Il potere, soprattutto a livello centrale, ma non solo, ha sempre agito su questa contraddizione, attraverso l’uso di prebende e favoritismi, per dividere e rendere debole e subalterno il settore. La crisi che stiamo attraversando non fa altro che mettere in luce, in modo ancor più drammatico, quello che è un limite storico dell’intero sistema.
L’assenza evidenzia la mancanza. Quando le relazioni sociali potranno tornare alla normalità, probabilmente assisteremo ad un picco di interesse verso attività che in precedenza non facevano parte della sfera di interessi di molti cittadini. Come molti hanno riscoperto l’attività fisica, tanti, mi auguro, si lanceranno verso attività culturali e di socialità. È facile ipotizzare però che questa curva di interesse, come quella dello sport, tenderà a riportarsi rapidamente sui livelli pre-emergenza.
È ragionevole pensare di sfruttare un picco di interesse per programmare aperture straordinarie o mettere in campo una maggiore elasticità anche in termini di permessi per incentivare la ripartenza e raggiungere con la cultura anche un nuovo pubblico?
Ecco, questo è il punto. Il bisogno di cultura diventa più evidente all’opinione pubblica quando ci si trova di fronte a situazioni drammatiche. Ricordo nel 2012, quando fummo colpiti dal terremoto: in quel momento ci si rese conto di come i teatri, le biblioteche e i cinema, inagibili o distrutti, fossero luoghi indispensabili per le nostre comunità. Di come quei luoghi fossero importanti per la definizione dell’identità delle comunità e del loro ritrovarsi.
Immaginate queste nostre giornate da reclusi volontari in casa cosa sarebbero senza musica, film, teatro in streaming, visite virtuali ai musei e alle opere d’arte, libri, ebook, audiolibri. Se non fossero intervenute in soccorso la cultura e l’arte, immaginate come sarebbero vuote, insensate e frustranti queste nostre giornate. Spero che questi giorni aiutino l’opinione pubblica, prima di tutto, ad assumere la consapevolezza che tutto questo non cade dal cielo. Dietro ogni film, opera teatrale, libro, musica, c’è la fatica di tanti, il lavoro appassionato, appagante ma poco pagato. E spero che si arrivi a capire il valore della cultura anche senza bisogno di vivere nell’emergenza.
Le istituzioni, a partire dal governo nazionale, dovranno mettere in campo risorse straordinarie, non le briciole di cui sento parlare, per rimettere in piedi un settore che da questa crisi uscirà in ginocchio. Temo non si abbia bene idea di quale è e quale sarà il danno arrecato da queste settimane di chiusure, inattività, rinvii, annullamenti ad un settore che, come ho detto, già viveva in condizioni di sopravvivenza. Dall’impegno anche finanziario che verrà messo in campo, dipenderanno le sorti di un pezzo importante della vita culturale del Paese. Non sarà ancora con il generoso volontarismo degli operatori o con una maggiore diffusione in rete di contenuti culturali che salveremo il futuro di centinaia e migliaia di realtà che fanno la ricchezza del nostro tessuto culturale e creativo.
Cogliamo l’occasione, nel mentre si dovesse mettere in campo un Piano Marshall per la cultura, di definirne meglio i suoi assetti strutturali, contrattuali, le forme di comunicazione e di diffusione, misurandoci anche con le nuove tecnologie. In modo però non estemporaneo e delegato alle singole iniziative, ma con una strategia innovativa e a 360°.
La sua esperienza come assessore regionale si è conclusa, cosa la aspetta una volta ripristinata la normalità e soprattutto cosa si aspetta da questa nuova sfida?
Finita la mia esperienza amministrativa stavo cominciando a ridefinire un mio personale percorso professionale nel campo della progettazione culturale creativa. Io sono, si può dire, una delle vittime di questa fermata forzata di tutte le attività. Avevo richieste di collaborazione e consulenze su diversi progetti che ora si sono, ovviamente, tutti fermati in attesa di uscire da questo tunnel. Uscita che, come sempre in questi casi, ci porrà tutti di fronte ad un bivio: sopravvivere o rinascere a nuova vita, sulla strada dell’innovazione. Io lavorerò, con chi vorrà affrontare la sfida, per seguire questa seconda strada. Le idee sono tante, bisognerà dare ad esse gambe robuste perché il cammino sarà lungo e irto di ostacoli. Ma è il bello delle nuove sfide.