Esiste un linguaggio che semina odio, paura, sfiducia e che genera egoismo. Poi ne esiste un altro, opposto, che si prende quotidianamente la responsabilità di muovere al buon senso, alla comunità e che è materia da maneggiare con cura, perché contribuisce a creare una percezione costruttiva del tempo. Nel terzo episodio della nostra raccolta di testimonianze di chi utilizza, nel suo lavoro o personalmente, questo secondo tipo di linguaggio, incontriamo Laura Morandi, approfondendo alcuni aspetti del suo lavoro, così profondamente cambiato in questo periodo.
Laura Morandi, classe 1991, vive a Spilamberto e davvero si può dire essere una conoscenza di MoCu, perché per MoCu ha scritto alcuni articoli davvero molto significativi. Insegnante di danza appassionata e attenta, fra le sue svariate passioni vi è appunto la scrittura: i suoi racconti si possono leggere sul blog pausapaglia.it
Coreografia ispirata al lavoro di Francesco Gammino che adegua la danza al poco o nullo spazio.
Quanto e come è cambiato il tuo lavoro in questo periodo?
Più che cambiato, si è proprio fermato.
L’insegnamento della danza presuppone una vicinanza con l’allievo, per poterlo correggere e per evitare che impari male i movimenti e ne abbia delle ripercussioni fisiche. Molti insegnanti stanno ripiegando su delle lezioni via Skype, Zoom o similari, che hanno più valore psicologico che formativo, un po’ come l’asporto per alcuni esercizi commerciali. È la possibilità, comprensibilissima, per loro, di continuare a vedere gli allievi e mantenere un legame. Io non lo sto facendo perché ho difficoltà a pensare di entrare a casa delle persone, dove tutti hanno disponibilità diversa di spazio, intimità, e anche psicologicamente stanno tutti vivendo questa situazione a proprio modo, quindi più che continuare con le lezioni di allenamento, che presuppongono una parità delle possibilità, sto dando dei compiti creativi, di coreografia.
Partendo da un concetto, da una musica o da una consegna, offro degli input su cui i ragazzi creano, partendo da loro, dalla loro situazione, dal loro punto di partenza emotivo oggi, e dalle possibilità degli spazi che hanno. Il cambiamento principale è dunque questo, da insegnante ma anche da danzatrice. Ovvero che in genere noi necessitiamo dello “spazio vuoto”, che sia quello teatrale, o quello della sala di ballo, vuoto sia di elementi ma anche di suggestioni, e in una composizione coreografica si crea tutto, dagli oggetti che ci vuoi dentro, al messaggio che vuoi veicolare, parti da un’idea e poi la ricrei in tutto, come nella regia di un film. E invece ora la creazione è diversa, devi partire da delle possibilità ben stabilite, e anche il messaggio da veicolare fai fatica a metterlo a fuoco, in questi giorni in cui tutto e niente hanno importanza. La creazione è diventata più un’esplorazione quindi, del potenziale delle cose (come un tavolo), degli spazi (come il tetto), e di te in relazione ad essi.
Oggi siamo vittime di una infodemia: voci più o meno autorevoli sentono la necessità di condividere consigli e pensieri abusando di uno strumento che, se usato con i giusti criteri, ha un grande potere: il linguaggio. Fermo restando che la libertà d’espressione è croce e delizia della Democrazia e senza entrare nei meriti dell’assenza di un pensiero critico, secondo te, tutti questi contributi che fine faranno? Cosa resterà e grazie a cosa?
La comunicazione oggi fa quello che stiamo facendo un po’ tutti: si mantiene in vita. C’è una funzione del linguaggio a cui sono molto legata, si chiama “funzione fàtica”, ovvero la chiacchiera, il bla bla bla su cui si fondano la maggior parte delle relazioni. Potrebbe sembrare una funzione negativa, perché distoglie da una comunicazione profonda e pensata, ma in realtà, se pensiamo a noi, è una funzione molto vitale, che ci permette di non scavare troppo in fondo e di non dover donarci per forza a tutti, ci permette di scegliere chi, e chi no, può riceverci nel casino complessivo che siamo.
In una situazione come quella odierna, in cui percorriamo pochi metri al giorno, vediamo le stesse cose, e gli argomenti ce li dobbiamo tirare fuori da dentro, perché il fuori è fermo, capita di dirne tante, contraddirsi, non dare troppo peso a quello che ci esce, perché appunto, lo facciamo per tenerci in vita. Ma se lo faccio io, pazienza, se lo fa un mezzo di comunicazione danneggia. Se lo fa un politico, o una figura di riferimento, è un disastro (ce n’è uno che dice di iniettarsi del disinfettante in vena, per dire).
Il problema è che nelle situazioni di difficoltà e nuova difficoltà, come quella che stiamo vivendo, si tende tutti a diventare più fragili, noi uomini singoli, ma anche le professioni; quindi si sbaglia, anche chi ha la responsabilità di pensare più volte prima di esporsi. Di tutto questo, di chi si sta avvalendo della “funzione fàtica” del linguaggio, non rimarrà nulla, come di tutte le cose dette a cena per coprire i silenzi imbarazzanti.
Quello che rimarrà saranno le opere creative che hanno provato a tirare fuori da queste giornate, il bello. Faccio alcuni esempi: Aterballetto, non potendo creare spettacoli per il teatro, ha creato un’opera di video-danza, con ogni danzatore a casa propria, che quindi presuppone una regia audiovisiva precisa e puntuale, possibilità che in altre condizioni non avrebbero mai esplorato. Zerocalcare nei suoi cartoni racconta la quotidianità di questo periodo con la sua sensibilità e facendoci ridere. Andrea Capucci, artista visuale modenese, ha creato un video animato sul 25 aprile oggi, dai balconi, che racconta con delicatezza la relazione tra lo stare chiusi e la libertà. Ecco per me queste sono esempi di opere che sopravviveranno, perché sono testimonianze di una fase storica, prima di tutto, e non vogliono creare stupide tifoserie da stadio. Raccontano la complessità di questo periodo, e di come reinventarsi nelle possibilità che abbiamo.
Coreografia ispirata al lavoro di Francesco Gammino che adegua la danza al poco o nullo spazio.