Moby Dick, lo spettacolo nato in casa Teatro Dei Venti, ha fatto il giro sui media di tutta Italia, e non solo. Molti di voi, i più fortunati, avranno già avuto occasione di gustarsi lo spettacolo con i propri occhi.
Noi di MoCu magazine non vogliamo annoiarvi con l’ennesima, e forse ormai tarda, recensione ma vogliamo raccontarvi Moby Dick ponendo l’attenzione su un altro senso: l’udito.
Tommaso Caverni ha avuto il piacere di incontrare Luca Cacciatore, direttore musicale dello spettacolo, e oggi, in questa intervista, ci raccontano questo lungo e importantissimo lavoro che è molto più di una semplice colonna sonora!
Ciao Luca, innanzitutto ti faccio i complimenti anche a nome della redazione perché Moby Dick è uno spettacolo che stiamo seguendo con molto interesse da diverso tempo. Volevo fare due chiacchiere con te per quanto riguarda l’aspetto prettamente musicale, che è uno degli elementi portanti. Come ti sei approcciato allo spettacolo?
Ti ringrazio. Col Teatro dei Venti c’è una collaborazione che è nata diversi anni fa. Inizialmente li ho conosciuti vedendo Il draaago e poi mi sono trovato a lavorare insieme a loro nella realizzazione di Simurgh, che è stata la mia vera e propria introduzione al teatro di strada.
Successivamente il sodalizio è proseguito e mi ha portato fino alla prima di Moby Dick, appunto, dopo un lavoro di quasi tre anni insieme. Dal punto di vista tecnico la prima fase è stata, attraverso i primi incontri, capire la dimensione in cui si svolgesse questo nuovo progetto rispetto al precedente.
La linea comune è il fatto che la musica sia piegata completamente all’azione e, contemporaneamente, diventa azione essa stessa, a partire dalla ricerca di Igino (L. Caselgrandi) nella sezione ritmica che crea anche lo scheletro del movimento degli attori. Oltre a ciò, in Moby Dick, si è unito un lavoro più armonico, grazie anche al contributo di Domenico (Pizzulo), con Synth e chitarra elettrica, che ha accentuato maggiormente la ritmica dandole altresì una nuova dimensione. Infine, ultimi ma non per ultimi i miei fiati, oltre a creare melodie, seguono costantemente l’azione degli attori attraverso una linea che si interseca con loro creando un vero e proprio dialogo, diversamente da quello che potrebbe accadere in una colonna sonora in cui la musica procede parallelamente.
Anche l’aspetto evocativo è molto importante, perché c’è stata una vera e propria ricerca per quanto riguarda i suoni marittimi.
Questo è un aspetto che ti avrei chiesto subito dopo. Possiamo quindi parlare di musica funzionale allo spettacolo, come ad esempio il sax che simula il richiamo delle balene?
Sì, certo. Anche cercare di riprodurre il rollio della nave sfruttando particolari ondulazioni del suono ed effetti del sax sono un altro esempio di quanto appena detto. Poi c’è senz’altro l’evocazione, a livello più poetico, nel creare una dimensione nell’azione drammaturgica che non dev’essere sempre in analogia ad essa ma anche in contrasto.
In particolare mi viene in mente l’azione legata a questa immensa costruzione scenografica, in cui la musica assume un po’ il ruolo che avevano le work song in una fabbrica: oltre ad accompagnare il lavoro diventa anche cadenza per il ritmo lavorativo.
Il tema finale invece è una melodia volutamente semplice, in modo che rimanga impressa, ma anche fortemente emotiva e poetica, volta a concludere l’atmosfera di grande impatto e a trascinarla fino all’applauso.
So che ti sei specializzato molto in musiche orientali, balcaniche e greco-turche. Hai attinto anche da esse oppure ti sei ispirato ad altro per le musiche di questo spettacolo?
In questo spettacolo, a differenza del Simurgh, la componente orientale è meno accentuata. Ci sono dei richiami ma si è puntato più che altro a un’unione di generi legati soprattutto dalla musica elettronica.
La dimensione molto importante dello spettacolo è questo tappeto in cui il sax stesso viene sempre filtrato attraverso una pedaliera con effetti quali riverberi e flanger che non sono mai puramente acustici e tradizionali come nella musica orientale. Quindi diciamo che c’è stata un’ennesima ricerca che ha portato ad una deriva più moderna ed elettronica passando per generi tradizionali, come il valzer. C’è qualche richiamo al balcanico ma c’è anche il rock.
Altro aspetto di cui vorrei che ci parlassi è la modalità in cui si è svolto il lavoro di costruzione vero e proprio delle musiche in relazione alle scene.
Il lavoro consta di una prima fase di conoscenza reciproca e di laboratorio con gli attori, in modo da potenziare le loro abilità ritmiche. Poi, in separata sede, gli attori hanno lavorato insieme al regista ad uno scheletro della rappresentazione, affinché noi musicisti avessimo un’idea degli scenari su cui comporre.
Successivamente la costruzione vera e propria si sviluppa, si concretizza e si conferma soltanto nella fase finale in cui le idee vengono messe insieme e l’obiettivo diventa creare il legame tra musica e azione drammatica.
È molto importante anche cercare di costruire collegamenti tra una scena e l’altra come, ad esempio, nel monologo durante il quale, se ci hai fatto caso, un semplice basso riprodotto col sintetizzatore lega la scena attuale a quella che verrà.
Ti chiedo un’ultima cosa: del tuo bagaglio professionale e culturale, cosa ritieni che ti abbia aiutato maggiormente?
Guarda, credo che per lavorare in una dimensione teatrale, oltre alla preparazione musicale, occorra anche un’attitudine particolare per la drammaturgia. Io ho fatto studi classici e ho sempre avuto una passione per il teatro, per le riflessioni e la saggistica. Questo ha sviluppato in me una sensibilità che non molti hanno e che si è rivelata estremamente preziosa, anche per quanto riguarda il sapersi “assottigliare” a livello scenico.
Un musicista, solitamente, tende a voler essere protagonista ed esplodere nel virtuosismo, invece occorre riuscire a mettersi da parte, senza nascondersi, in modo da essere veicolo al servizio della rappresentazione.