Elena Pasini (1980) è architetto. Si è laureata al Politecnico di Milano e ha studiato un anno all’Universidad Politecnica di Valencia. Lavora stabilmente a Zurigo dal 2012. La Svizzera le ha permesso di seguire la passione di sempre per la natura e lo snowboard e di avere una carriera gratificante come architetto. Dal 2012 tiene anche un blog, hometreehome, nel quale ha riversato una ricerca iniziata molti anni prima sul tema della casa sull’albero. Ad oggi il blog conta più di 500 post raccogliendo storie di case sugli alberi da tutto il mondo e permette ai suoi visitatori di salire virtualmente su quei rami e guardare le cose da un’altra prospettiva.
Con Elena ci siamo date appuntamento su Skype e abbiamo parlato (forse un po’ troppo) non solo di come è nato il suo blog e di case sugli alberi – un tema apparentemente molto naïf – ma anche del mestiere dell’architetto, di spazio pubblico, di partecipazione e di integrazione, di Zurigo e di Modena, senza nascondere un pizzico di nostalgia.
Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.
Italo Calvino, Il Barone Rampante, 1957
Raccontaci come sei arrivata a Zurigo…
Dopo la laurea nel 2005 ho lavorato per cinque anni come assistente al Politecnico di Milano e contemporaneamente in uno studio a Parma. Ho sempre avuto la passione della montagna e dello snowboard, quindi il desiderio era quello di poter unire le due cose: l’architettura e la montagna. Avevo preso in considerazione due possibili mete, l’Alto Adige e la Svizzera. In Italia però era difficile inserirsi in uno studio, mi categorizzavano come over skilled e dicevano che non potevano pagarmi. Quindi la mia scelta è stata abbastanza forzata. Inizialmente ho abitato con alcuni amici a Lucerna dove ho fatto un corso intensivo di tedesco. Dopo una ventina di giorni ho trovato lavoro a Zurigo e dopo tre mesi da pendolare ho deciso di trasferirmi.
Quale è stato il primo progetto a cui hai lavorato?
I primi cinque anni ho lavorato in un piccolo studio dove mi hanno subito inserito sul progetto di una serra con laboratori di ricerca per l’Università di Berna, che ho seguito per tre anni dalla fase preliminare alla direzione lavori come capo cantiere. In Italia non avevo mai fatto un’esperienza del genere e nonostante fossi straniera e donna (lo sottolineo perché per il lavoro in cantiere non è scontato) non ho avuto nessun problema. Successivamente ho provato a lavorare in proprio ma crearsi una rete di clienti non è semplice, soprattutto all’estero. Quindi ho iniziato nuovamente a collaborare con uno studio: Office Haratori. È uno studio internazionale, molto giovane e dinamico.
Vedo dal tuo sito però che mantieni anche l’attività di libera professionista…
Sì, ma il lavoro in studio occupa quasi tutto il tempo. Mi piacerebbe ritornare a fare qualche concorso. A maggio ho partecipato con un’amica ad un concorso per la progettazione di una scuola professionale finanziata in parte dal Cantone. Ecco un’altra differenza con l’Italia. Ovviamente ci sono concorsi ad invito ma spesso i concorsi, pubblici o privati, sono aperti a tutti, senza prerequisiti da soddisfare e quindi anche piccoli studi o giovani professionisti possono partecipare e vincere.
In Italia mi sembra che il ruolo dell’architetto nella costruzione della città sia spesso sottovalutato…
A me sembra che in Italia architetti, ingegneri e geometri si rubino un po’ il lavoro a vicenda quando invece hanno compiti molto diversi ma tutti necessari nel progetto. Qui in Svizzera la suddivisione dei ruoli è chiara: ognuno sa dove arriva il proprio campo di competenze e quindi di azione, per poi intraprendere un grande lavoro di squadra e raggiungere l’obiettivo finale insieme ad altri professionisti. C’è meno competizione tra le varie figure e al tempo stesso sono più valorizzate le competenze di ciascuno.
Il blog hometreehome unisce architettura e natura. Come nasce la passione per la natura? E come nasce il blog?
Nasce grazie ai miei genitori e soprattutto grazie ai miei nonni. Durante la mia infanzia, quando finiva la scuola, io, mia sorella e i miei cugini trascorrevamo i mesi estivi nella casa di Miceno (Pavullo) dai nonni. Giocavamo sempre fuori, in mezzo al verde e agli animali, e costruivamo di tutto con il legno. Mia madre ci raccontava ridendo che tutti i sabati ci dovevano comprare un chilo di chiodi perché li finivamo in una settimana! Un’estate il nonno ha deciso di costruirci una casetta sul fico centenario che avevamo in giardino. Non era nient’altro che un pallet che si inseriva perfettamente nella ramificazione del fico. Da quel momento stavamo sempre sul fico, a mangiare, a giocare, a leggere e ogni tanto qualcuno cadeva giù e finiva nell’orto della nonna. Tutto è partito da qui!
Crescendo questa passione è maturata e archiviavo ogni notizia o articolo che riguardasse case sugli alberi. Dopo poco ne avevo già raccolte tantissime. Nel periodo in cui avevo smesso di lavorare a Parma, è stata mia sorella a dirmi: «Ma perché non dai una forma più strutturata al tuo archivio in modo che anche altri possano fruire della tua ricerca?». Hometreehome è nato così, ed è nato subito in inglese perché volevo che potesse arrivare anche a chi era dall’altra parte del mondo.
È un progetto in continua evoluzione, con case sull’albero da tutto il mondo. I post sono tutti frutto delle tue ricerche o ricevi anche segnalazione esterne?
È successo tante volte che gente mi scrivesse. La cosa bella è che di solito mi raccontano anche la propria storia e allora si crea una situazione molto intima. Ti senti vicino a quella persona anche se vive nell’Ohio. Sempre tramite il blog, una volta mi ha contattato un’azienda italiana del settore. Ci siamo incontrati a Milano per conoscerci e mi hanno invitato a partecipare ad una mostra organizzata a Padova nel 2015 in collaborazione con lo IED e il FAI: Treehouses: abitare sull’albero.
Tra le tante storie pubblicate, raccontaci le tue preferite.
La prima storia che mi viene in mente è quella di una casa a Montale, costruita da un papà insieme ai suoi figli su di un ulivo bellissimo. Oppure The Hemloft, una casa in Canada costruita interamente con materiali di recupero presi da Craiglist, progettata con forme organiche e grande attenzione ai dettagli.
La vicenda più mediatica invece è quella di Nick Weston, un ragazzo inglese che si era stancato di vivere a Londra e si è trasferito nella foresta costruendo la propria casa completamente da solo, e ora continua a vivere lì. Sì, questa forse è la mia top 3.
Cosa potrebbe diventare hometreehome?
Nel blog c’è la sezione “Design” in cui mi rendo disponibile a progettare case sull’albero per chiunque ne voglia una! Il mio sogno sarebbe quello di realizzare soltanto case in legno, per terra o sugli alberi! Dopo aver fatto diversi corsi e vedendo i materiali usati in cantiere, mi rendo sempre più conto dell’importanza di abitare in un ambiente sano, fatto con materiali naturali. I riscontri positivi sono immensi: dalla salute, al miglior isolamento e quindi alla riduzione di consumi ed emissioni. Il legno è un altro vivere. Quindi se volete contattatemi! 😀
Chi o cosa ha maggiormente influenzato la tua formazione?
Il Politecnico mi ha dato un’ottima preparazione. Questo lo dico senza riserve.
Il mio Maestro è stato sicuramente David Palterer, il mio relatore di tesi. Lo considero il mio papà dell’architettura e tuttora resta il mio punto di riferimento quando non riesco a risolvere un aspetto di un progetto. Provo a pensare come lo affronterebbe lui, ovvero cercando di far giocare le persone con l’architettura e creare situazioni che emozionino.
Poi ci sono i viaggi. Studiando architettura ho iniziato a visitare le città in maniera più consapevole. Tutto quello che guardi, tutti gli stimoli che raccogli, si riversano nella tua pratica, a volte in maniera consapevole, a volte no. Le architetture di Friedensreich Hundertwasser sono state una grande ispirazione. Questo architetto dei primi del ‘900 sosteneva l’uso delle forme organiche in architettura e condannava il razionalismo. Nella sua casa a Vienna gli alberi si sviluppano dentro la casa stessa e fuoriescono all’esterno. Per lui gli alberi erano inquilini e li considerava fondamentali per la vita dell’uomo.
Come è vissuto a Zurigo lo spazio pubblico?
Il concetto di spazio pubblico e privato a Zurigo è un po’ difficile da definire e lontano dalla nostra cultura. Per esempio, lo spazio verde nel mezzo di una casa a corte, a patto che uno non decida di recintarlo, è potenzialmente accessibile sia dalle abitazioni di quell’edificio sia dal pubblico. Diventa cioè un’estensione dello ‘spazio della città’.
Il famoso concetto di ‘semipubblico’ funziona…
Sì, esatto. Un altro esempio sono le scuole: nei weekend lasciano i cancelli aperti e i campi sportivi possono essere utilizzati dal privato cittadino; o lo stadio di atletica della città, un luogo multifunzionale con un ristorante, un centro di fisioterapia, una sala congressi… in modo tale da essere sempre ‘vivo’ a diverse ore del giorno e per utenze diverse. Quando non ci sono le partite le tribune sono accessibili; non puoi andare nel campo ma se vuoi andare lì a leggere, o anche solo stare seduto e guardare il cielo puoi farlo.
Girando per Modena penso spesso alla nostra incapacità di usare lo spazio pubblico. A parte al parco, riusciamo a stare in uno spazio pubblico solo con un drink in mano o seduti in un dehor. Per gli stranieri invece è diverso, i filippini soprattutto sono incredibili! Noi non abbiamo questa cultura, anche perché uno spazio “libero” diventa facilmente un luogo non sicuro.
Qua a Zurigo tanti usano ‘gli spazi della città’ perché non hanno uno spazio aperto a casa. Così si va al parco, al lago, al fiume, magari con la propria griglia (anche io da quando sono qui ho la mia griglia portatile!). Si sta con gli amici, la famiglia, e quando si ritorna a casa si lascia tutto come si è trovato. Perché lo spazio è tuo, la città è tua. In Italia la gente pensa che una piazza o un parco siano ‘di qualcun altro’ e non siano come il giardino di casa propria. Mi viene in mente il caso di Sechseläutenplatz, la grande piazza vicino al lago e il Teatro dell’Opera, spesso data in gestione dall’amministrazione per il circo, i mercatini di Natale, il festival del cinema. I cittadini hanno protestato perché la vorrebbero sempre libera, senza eventi. È parte della loro quotidianità e non hanno bisogno che accada qualcosa per sentirsi bene in quel luogo. Sono state messe delle sedie molto pesanti, in modo che non siano portate via dal vento, e la gente si ferma per la pausa pranzo, a bere un caffè, a leggere le mail o un libro. È un esperimento che hanno tentato e funziona.
Se lo spazio è ben progettato non c’è bisogno di riempirlo di “eventi” per avere una città viva o per valorizzarlo. Fare comunità significa qualcos’altro. Comunque penso sia una questione complessa, legata a un senso civico che però parte dal rispetto delle regole e dal rigore nel farle rispettare.
A tal proposito vorrei che ci parlassi di un tuo progetto recente, ovvero quello dell’Autonome Schule Zürich.
Qui a Zurigo ci sono due realtà: Photobastei e Autonome Schule. Photobastei è un museo di fotografia che occupa edifici vuoti per 2, 3 o 5 anni prima che vengano abbattuti per lasciare spazio ad altre costruzioni. La demolizione è già stata pianificata, ma la città permette e regola l’insediamento temporaneo di attività negli edifici liberi. L’Autonome Schule si muove con le stesse dinamiche e al momento è all’ultimo piano di questo grande edificio. La Scuola parte dal concetto che l’educazione è un diritto e deve essere libera. Per principio è apolitica e non accetta finanziamenti dal pubblico, soltanto donazioni spontanee, ma si muove nella legalità ed è accettata dall’amministrazione. Gli insegnanti sono volontari, spesso giovani studenti, e danno gratuitamente lezioni di tedesco, di svizzero, turco, arabo, francese… ci sono anche corsi di matematica, yoga, judo… chiunque può partecipare. A piano terra c’è la caffetteria che svolge anche il servizio di mensa e una volta alla settimana puoi cenare con 2 franchi (1,74 euro). In pochi lo sanno ma è aperta a tutti. Essendo tutto gratuito la Scuola è frequentata soprattutto da immigrati.
Qualche tempo fa sono stata contattata dalla ONG di Architecture for Refugees (analoga al nostro Architetti Senza Frontiere) con cui avevo già collaborato, che mi ha chiesto di aiutarli nella ristrutturazione degli spazi che avrebbero ospitato la Scuola. Il compito degli architetti era definire il progetto di massima e risolvere i problemi tecnici. Poi la messa in opera è stata fatta insieme ai ragazzi, utenti della scuola. Noi svolgevamo un ruolo di coordinamento ma lavoravamo anche fisicamente insieme a loro, parlando e condividendo la costruzione di un progetto. Io coordinavo un team di 8-9 arabi e conoscendo la condizione delle donne in quei paesi mi ha stupito il fatto che in quel momento una donna fosse il loro ‘capo’ e fosse ascoltata. Un’esperienza profondissima a livello umano.
Insomma, tu a Zurigo ci stai bene, o ci sono aspetti dell’Italia che ti mancano?
Sto molto bene qui. Zurigo è una città sicura, democratica e piena di opportunità, una piccola metropoli. A volte mi sento un po’ in esilio e mi manca Modena. L’ideale sarebbe una Zurigo italiana!
Penso che l’Italia abbia un potenziale esagerato, per non parlare di Modena e dell’Emilia Romagna che sono le scene che conosco meglio, ma la burocrazia ti soffoca e la politica non incentiva lo sviluppo di progetti culturali. Penso a NODE di Filippo Aldovini, che negli anni ha conquistato credibilità internazionale, a Icone di Pietro Rivasi, o al vostro progetto che è ancora giovane ma valido. Qui sarebbero diventate cose giganti in brevissimo tempo! Se vuoi fare qualcosa ci sono aiuti economici per poterle realizzare, le procedure sono più snelle e la mentalità è più aperta. Forse però proprio perché tutto è più strutturato, manca quella spontaneità, quel condividere parlando in situazioni informali che invece crea fusioni di idee, quelle sinergie da cui si scatena un progetto, che in Italia ci sono, anche nelle piccole città.
I tuoi luoghi preferiti di Modena?
Quando torno devo sempre fare un giro al mercato Albinelli. A Zurigo manca un posto del genere.
Poi la Pomposa, Ermes e le Gobbe. Ecco, forse nello skate park ritrovo quella dimensione di cui parlavamo: uno spazio pubblico aperto, di aggregazione, in cui si creano situazioni informali al di là della funzione specifica. Sai che troverai qualcuno che conosci, per fare due chiacchere o mangiare e bere qualcosa insieme.