Nell’anniversario della nascita di Cesare Leonardi, nato a Modena il 3 giugno 1935, abbiamo voluto rendergli omaggio attraverso la voce, le parole e i ricordi di un suo storico collaboratore. Tonino Ghelfi, nato a Ravarino nel 1947, ha lavorato fianco a fianco di Cesare Leonardi e Franca Stagi tra il 1970 e il 1990. Ci siamo incontrati immersi nella varia collezione di opere dell’architetto modenese che Tonino ha raccolto negli anni. Ecco la sua testimonianza.
Parlami dell’inizio, come sei arrivato a lui?
Ero appena tornato da militare e dovevo decidere cosa fare nella vita, mi avevano detto che nel suo studio cercavano disegnatori. Avevo fatto solo l’istituto tecnico, la mia formazione era pari a zero, ma a vent’anni credi che il mondo sia tutto tuo, così andai lo stesso. Lui mi fece fare un disegno su una lampada che si chiama Metro: era un disegno puramente tecnico. Tutti quelli che bazzicavano attorno a questo grande studio Leonardi e Stagi erano architetti, futuri architetti o geometri, perciò erano molto bravi a lavorare a progetti di architettura ma non sapevano come disegnare un bullone o un oggetto tecnico. Ecco perché feci una bella figura.
Leonardi rimase colpito: era laureato in architettura ma veniva da una famiglia di falegnami e persone che avevano una cultura tecnica. Mi disse “Vieni qui, poi vediamo”. All’inizio venni impiegato soprattutto sui plastici, tagliando il legno e tornendo basi. Col tempo è nato poi il feeling che ci ha uniti per anni.
Quali progetti particolari hai visto nascere?
Appena arrivato ho lavorato al progetto del Parco Amendola. Ho fatto con lui la campagna di rilevamento fotografico del Duomo di Modena, poi di Palazzo dei Musei e del Comune. Avevamo un grande laboratorio fotografico, io stampavo le foto per lui, ma lui ha fatto fotografie e sviluppo fin da quando era bambino, glielo aveva tramandato suo padre.
Le sedie, i solidi e i primi prototipi li ho fatti io materialmente su suo disegno: lui disegnava, mi spiegava il progetto, e io lo tracciavo su legno e tagliavo, poi lo montavamo. Alla sera, quando ci stancavamo lui di fare l’architetto io di assisterlo, ci mettevamo a fare questi oggetti, un po’ per gioco; ma lui ci credeva. Ne abbiamo fatto uno, poi un altro, poi centinaia.
Riguardo i solidi, il design è stato un interesse parallelo all’architettura o ne ha preso il posto col tempo?
Quando andai da lui aveva già fatto il Dondolo e la sedia Nastro, ed era noto a livello internazionale per il design. Ma quando ha trovato uno “scagnozzo” come me, che gli stava sempre dietro le spalle e che poteva mettere a lavorare subito sulle cose, la sua fantasia già infinita è decollata.
Credo anche che, purtroppo, gli siano mancate le commissioni: non faceva più le case, i palazzi o le piscine. Era sempre pieno di idee e ha occupato questo tempo lavorando alle sedie, alle teorie come il metodo Albatros (successivamente rinominata SRA – Struttura Reticolare Acentrata, ndr) che ha poi applicato al lavoro di Bosco Albergati.
Hai visto nascere “L’Architettura degli Alberi”: puoi parlarcene?
Ho visto quasi tutto, dalla fase iniziale. L’idea è stata di Leonardi con la Stagi, poi io e lui abbiamo fatto dei veri e propri tour, perché non trovando in zona nessun albero che avesse la sua forma naturale, lui la chiamava la sua silhouette, dovevamo andare dove sapeva che si trovavano alberi non rovinati dall’uomo, come a Londra ai Kew Gardens o a Palermo all’Orto botanico.
Ha preso la macchina, ha caricato me e un altro architetto, e siamo partiti per la Svizzera, poi la Francia, poi Londra, andando e tornando: ecco perché li chiamo tour. Deviavamo per vedere tutte le cose che gli interessavano e che non c’entravano niente con gli alberi, come le costruzioni di Le Corbusier, che era un suo mito. Capisci che cento chilometri da una parte, trecento dall’altra, fa presto a passare un mese. Anche quando siamo andati a Palermo, attorno al 1972-73 non si trattò di fare solo il viaggio Modena – Palermo; ci fermammo anche a Caserta, per la reggia, ma soprattutto per il parco con i suoi alberi.
Io restavo abbagliato, vedevo queste cose per lavoro velocemente, lui faceva le foto e io segnavo gli appunti; dovevo portare le valigie e fare da segretario, ma poi ci tornavo da solo varie volte per rivedermele con calma. Oggi sono posti di cui si parla normalmente, ma negli anni Settanta a Modena erano cose sconosciute per chi non aveva una cultura come la sua. Le sue ricerche non interessavano molti, si parlava solo di quei due o tre oggetti di design, il Dondolo, la Nastro. Il resto si conosceva poco, era una cosa di nicchia.
È stato anche grazie al lavoro dell’Archivio che oggi finalmente si parla di tutto, anche a livello internazionale.