Le biblioteche sono da sempre il luogo del fermarsi, ultimo baluardo del tempo lento, del tempo personale. Un luogo dove andare per stare.
Luoghi sacri dove il silenzio è ricchezza e non peso, castelli di scaffali più o meno moderni, giungle afose di carte stampate, immobili oasi di parole scritte o sussurrate a bassa voce, stazioni in cui si incontrano e si strusciano scontrandosi spalle di lettori di tutte le età, gomiti di giovani studiosi e vecchi appassionati di fantapolitica travestita da romanzo storico, divoratori di fumetti, consumatori di sigarette e libri gialli, scrupolosi traduttori, volenterosi autodidatti di lingue qualsiasi ma, soprattutto e ancora, lettori comuni e non comuni, neofiti, proseliti o affezionatissimi, periodici, quotidiani, appassionati, devoti, entusiasti, improvvisati, finti lettori, veri lettori, scrittori, viaggiatori, sognatori, insomma esploratori di tutto ciò che è stato stampato.
Le biblioteche sono ancora luoghi del trattenersi e dell’intrattenersi, luoghi del sapere, imparare in silenzio, del leggere gli infiniti mondi dei libri, dei testi. Ognuna ha un suo sapore, una sua storia, una sua fauna, un suo scopo e una sua atmosfera.
Candida Höfer, fotografa tedesca classe 1944, appartenente alla Scuola di Düsseldorf, presenta nella straordinaria raccolta fotografica Libraries, le biblioteche nel loro essere in maniera semplicissima e disarmante il luogo dei libri, tempio della letteratura e santuari della lettura.
La Höfer ce le racconta senza bisogno di parole, come luoghi sociali, ma senza persone, senza giudizio, fotografandole con prospettiva centrale e luci naturali, immagini totalizzanti di architetture nude e disabitate, ma casa di scaffalature e milioni di libri.
E mentre noi “stiamo” e “stazioniamo” nelle biblioteche, i libri invece si muovono, sono proprio loro a uscire e rientrare, dopo essere stati nelle nostre case, sotto i nostri cuscini, tra le pieghe dei divani, sui comodini, sui nostri treni. Restituiti a fine prestito ritornano ai loro scaffali, carichi anche di una parte delle nostre case, forse delle nostre vite.
Vogliamo raccontare la storia di Elisa de Benedetti, che è stata per un po’ di tempo bibliotecaria, ma che è da sempre affezionata al cartaceo, al libro errante. Elisa lavorando in biblioteca a Formigine si è accorta che i libri tornano alle loro biblioteche sempre nuovi e sempre diversi, nascondendo tra le pagine tesori che noi lettori gli affidiamo, oppure conservando piccole parti delle nostre vite che dimentichiamo proprio tra le pagine di libri passeggeri.
Elisa ha raccolto e custodito queste cose restituite dai libri, con dedizione, con attenzione e stupore, con quella curiosità con cui ci si ritrova ad affezionarsi a ciò che riusciamo a sbirciare dalle finestre con le tende scostate di sconosciuti, con la fantasia con cui leggiamo le liste della spesa dimenticate nei carrelli del supermercato. Ha conservato pezzettini di vita, frammenti di storie senza padroni, certa che fossero preziosi attimi di qualcun altro, dimenticanze leggere ma vive, da riordinare e non lasciar perdute.
Quando, come e dove hai lavorato come bibliotecaria e cosa questo ha significato per te?
Ho lavorato alla Biblioteca Comunale Daria Bertolani Marchetti di Formigine in modo saltuario, tramite la cooperativa che gestisce il servizio. Dal 2016 al 2019 mi sono occupata, insieme alle mie colleghe del servizio al pubblico, della gestione del prestito e dei progetti di qualificazione scolastica.
La biblioteca si trova nel parco di Villa Gandini, un posto meraviglioso immerso nel verde, anche la strada che percorrevo per arrivare, Via Stradella, la “strada bassa” che si imbocca dalla Contrada, per me è diventata in qualche modo parte della biblioteca: su quella strada puoi leggere il passare delle stagioni nel colore dei campi e degli alberi, così come dalle vetrate della biblioteca, magari dimenticarti anche di dove vivi e in quale epoca…
Da bambina e da studentessa ho sempre percepito le biblioteche come una entità ostile, difficile, non sono mai stata una utente ordinata e penso di essere stata schedata in ogni biblioteca della provincia (forse ho anche una taglia sulla mia testa a Bologna, dove ho studiato!).
Poi ho avuto occasione di scoprirle dall’interno durante l’anno di servizio civile e da allora non le ho più lasciate, sono diventate “casa”. Dal centro storico alla provincia ho incontrato bibliotecarie visionarie, coraggiose, appassionate che mi hanno accompagnato nel mio lavoro che, in un modo o nell’altro, gira sempre attorno ai libri.
Cosa ti ha colpito e cosa ti è rimasto di quella biblioteca in particolare?
Formigine è una biblioteca fuori dal tempo per più di un motivo: i libri hanno ancora il cartellino cartaceo che va compilato in entrata e in uscita (oltre ovviamente al tracciamento digitale dei prestiti).
Questo rende i libri “parlanti”, ad esempio puoi estrarre un libro da uno scaffale e scoprire quando è uscito l’ultima volta, da quanto tempo è rimasto lì.
Ricordo che a fine turno, o prima di entrare, mi piaceva andare nel reparto Poesia e prendere un libro a caso, sfogliarlo e poi guardare il cartellino. Ci sono libri che come ultimo timbro hanno un 1990, un 2010. In genere più vecchio era l’ultimo timbro più facilmente il libro veniva a casa con me (con regolare prestito ovviamente!).
È così che ho iniziato a considerare la “vita dei libri”.
“La vita dei libri e le cose che ci dimentichiamo dentro”. Qual è stata la prima cosa che hai trovato in un libro e cosa ti ha suggerito?
Un giorno ordinando alcuni volumi ho trovato qualcosa, una specie di rivelazione su carta: un piccolo foglio colorato e ritagliato da un bambino, l’ho aperto e dietro c’era un menù, tra i ritagli potevo intravedere l’antipasto, il primo, il secondo e il dolce.
Ho pensato che le mie colleghe negli anni dovevano aver trovato una quantità infinita di frammenti di vita… li avevano conservati?
Da quel giorno mi sono sentita la custode di questi piccoli tesori, ogni sera a fine turno nella buchetta trovavo quello che avevano raccolto nei libri le mie colleghe, delicati reperti vegetali, ritagli di giornale, cartoline, scontrini, ricordi di cari defunti, carte da gioco, segnalibri, biglietti d’amore.
Tutte queste “cose” perdute e ritrovate, come le hai custodite e conservate?
In quel periodo specifico gestivo uno spazio al 104 di via Carteria, avevo un laboratorio dove ho lavorato e organizzato eventi. Così è nata l’idea della mostra SEGRETA, la vita nascosta nei libri, una piccola esposizione di questi reperti di vita.
Questi dettagli trascurati e dimenticati nei libri li ho sempre sentiti così carichi di una vita condivisa che tutt’ora li conservo in una scatola. I libri della biblioteca vivono in una dimensione al limite, diventano nostri per un mese o due, li portiamo ovunque, come segnalibri usiamo quello che ci passa per le mani casualmente, o magari scegliamo qualcosa di personale come un biglietto d’amore… poi il libro torna in biblioteca e torna pubblico.
Eppure, il carico di vita che ha vissuto, il libro se lo porta dietro, un carico che si manifesta in questi frammenti, come finestre socchiuse sulle vite che s’intrecciano, che rendono manifesto per pochi istanti la relazione che sviluppiamo con questi oggetti: così “nostri” da dimenticarci dentro il ricordo di un caro defunto ma al tempo stesso della collettività.
La mostra era stata allestita come un’esposizione naturalistica, quasi una mostra di farfalle rare. I frammenti erano fissati al muro con degli spilli, componendo a tutti gli effetti una natura morta. Questa definizione un po’ funerea, nella lingua tedesca e nell’inglese ha un altro nome, molto più bello e giusto: Still Leben, e Still life: vita silenziosa. Sulle pareti di via Carteria 104 avevo composto dei “quadri”, che rappresentavano una vita calma, senza rumori e senza movimenti, uno scorcio di vita intravisto.
Ognuno di quei frammenti ci appartiene, parla di noi, così come le biblioteche.