Raccontare la vita del museo. Intervista a Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi
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Spesso su Mocu abbiamo parlato di arte, abbiamo raccontato le mostre, il lavoro degli artisti e la grande offerta culturale che troviamo sul territorio. Abbiamo cercato di raccontare la cultura nella nostra città partendo dal punto di vista dello spettatore, ma anche di chi con la cultura ci lavora tutti i giorni.
Questa volta abbiamo avuto la possibilità di trovare un nuovo punto di vista.
Per raccontare la vita del museo non c’è persona migliore di chi lo vive tutti i giorni dal suo interno. Abbiamo avuto la fortuna di poter intervistare una delle poche donne direttrici in Italia: Martina Bagnoli, alla guida delle Gallerie Estensi, un polo museale composto da cinque sedi dislocate sul nostro territorio regionale: la Galleria Estense, il Museo Lapidario Estense e la Biblioteca Estense Universitaria a Modena, il Palazzo Ducale a Sassuolo e la Pinacoteca Nazionale a Ferrara.
Con lei abbiamo parlato del suo ruolo di direttrice, della sua formazione lavorativa, che l’ha portata in Italia da Baltimora, ma anche del rapporto delle Gallerie Estensi con le altre realtà culturali modenesi.
Sicuramente è una grossa responsabilità, sia per i luoghi che per le persone, ma soprattutto per le generazioni future.
Il mio lavoro consiste sia nel creare l’offerta culturale di oggi, nell’ottica di salvaguardare le collezioni, che nel far crescere la conoscenza, la ricerca e il desiderio di cultura nelle città in cui queste sedi sono localizzate.
Perciò ho sicuramente una grande consapevolezza che questo sia un lavoro importante per quello che faccio. Il non fare non è un’opzione.
È un lavoro nel quale bisogna “fare” non solo per stare aperti, ma anche per creare offerta culturale e, allo stesso tempo, sollecitare la domanda di cultura. Ed è molto complesso, soprattutto quando si deve agire su dei musei dislocati.
Il mio è un “museo diffuso”, perciò si deve lavorare con dei territori che, seppur limitrofi, sono anche molto molto separati.
Modena e Ferrara sono legate dalla storia, ma sono molto distanti dal punto di vista della fruizione culturale. Quindi, il rapporto con i territori è complicato, soprattutto quando si gestisce un museo statale, come nel caso delle Gallerie Estensi, che deve essere super partes e deve creare un’offerta culturale unitaria, che non sia solo quella legata ai territori, ma che faccia parte di una rete nazionale dei musei che è quella del MiBACT.
Bisogna integrare il territorio, le abitudini delle persone, le tradizioni culturali e i rapporti con le amministrazioni locali.
È stata una scelta assolutamente ponderata. La mia prima fase di studi universitari è stata in Inghilterra: ho avuto la possibilità di entrare in un’università molto esclusiva, quindi non l’ho lasciata scappare.
Invece, nel caso degli studi di dottorato sono andata a studiare alla The Johns Hopkins University. Mi interessava approfondire gli studi sull’Arte Medievale e all’epoca c’era un medievalista molto conosciuto il cui tipo di approccio mi interessava moltissimo.
Quindi sì, sono state delle scelte sicuramente ponderate, poi, a seguire, delle scelte dettate anche dalle opportunità, perché una volta perseguita questa strada all’estero è stato facile rimanere là per continuare la mia carriera.
Ho portato in Italia tutta la mia esperienza perché la mia formazione professionale è totalmente di stampo americano.
Questo mi è servito molto in alcuni aspetti del mio lavoro, come la necessità di aprire il museo ai visitatori, mettere il visitatore al centro dell’esperienza museale, cercare di costruire delle interazioni sia con il pubblico che all’interno del museo e costruire un teamwork, cosa non molto sviluppata negli istituti di cultura italiani.
Utilizzare un approccio multidisciplinare nella maniera di costruire, presentare e implementare i temi è una cosa molto comune negli istituti di cultura americani.
Io sono arrivata in Italia all’inizio della riforma dei musei; prima del 2014 i musei in Italia erano sostanzialmente degli uffici, delle soprintendenze. Non erano degli “esseri museo” differenziati dal progetto di tutela del patrimonio culturale sul territorio: ecco perché lavorare per mettere il visitatore al centro del servizio era fondamentale.
Sicuramente tutto quello che ho imparato in America l’ho portato qui, come tutto quello che non faceva parte dell’esperienza americana l’ho dovuto imparare.
Ad esempio non avevo mai lavorato nella pubblica amministrazione italiana: una macchina ministeriale complessa con una burocrazia molto più densa rispetto ai musei americani. Lavorare in un pezzo di Stato è un’esperienza che non avevo mai fatto e che ho imparato qui.
Il mestiere di Direttrice Museale l’ho imparato facendolo e facendo tutta la gavetta, da ricercatore, a curatore, a capo curatore, ecc.
Solitamente la carriera italiana è più quella del dirigente, sono due cose diverse. Io ho lavorato a lungo con le collezioni, studiandole, pubblicandole, insegnando all’università: diciamo che ho un approccio alla direzione del museo più orientata sui progetti che quella dirigenziale.
Sì, e soprattutto non c’è niente in un museo che una persona faccia da sola.
Quando si fa una mostra o un’opera di restauro si lavora con un team di persone. Negli Stati Uniti ho lavorato come curatore, ma ho lavorato insieme ai comunicatori, insieme ai designer, e questo è stato fondamentale per capire come strutturare un rapporto di progetto con altre persone e implementarlo anche qui nelle strutture italiane.
Sicuramente avere tanti istituti culturali in un “condominio” è un fatto negativo, perché pone un problema di riconoscibilità.
Quando sono arrivata io la Galleria Estense non aveva neanche uno stendardo fuori dal Palazzo dei Musei, era assolutamente invisibile.
Tutto questo fa parte di una tradizione storica che negli anni si è stratificata in questi luoghi in questa modo. Diciamo che non ci sono soluzioni semplici. Questi sono istituti che hanno amministrazioni di origini diverse, alcune statali altre comunali.
Le possibilità di crescita e di dialogo in questi ambienti sono sempre complicate per mancanza di spazi e per mancanza di capacità di seguire delle traiettorie comuni, questo perché sono diverse le collezioni e la maniera di utilizzarle.
È uno scenario complicato che pone diverse limitazioni a quello che si può fare: soprattutto limitazioni di spazio e di attrattiva.
Essere in un museo proprio, in un palazzo singolo, è molto diverso dal trovarsi al secondo piano di un palazzo, condiviso con altri. Inoltre il Palazzo dei Musei non si presenta come luogo museale, potrebbe essere scambiato con un’università, un ufficio pubblico, non c’è un ingresso che dice “sono un museo”. Questo è un bel palazzo, ma non comunica la sua funzione.
Siamo sicuramente in comunicazione perché siamo nella stessa scalinata, ma siamo due musei completamente separati, anche solo per quanto riguarda gli orari e i giorni di apertura.
Sono collezioni complementari ma del tutto distinte, per cui ci sono sicuramente dei legami storici, ma sono amministrate da enti diversi.
In generale noi lavoriamo su dei progetti più che sugli istituti.
L’impronta del reale era una mostra ideata e curata da noi, che aveva un aggancio con la fotografia e l’arte contemporanea, per cui abbiamo lavorato con FMAV creando una collaborazione tra le curatrici dei due enti.
Per il momento con i Musei Civici non abbiamo creato nessun progetto comune, ma questo non vuol dire che non ne faremo in futuro, ma più che delle collaborazioni di tipo istituzionale vedo più facili delle collaborazioni progettuali.
Assolutamente no. Anzi è ben noto che moltissima gente sceglie di vedere delle mostre molto care e non va al museo gratuito.
È solo una questione di principio e di considerazione del museo come bene comune, come servizio a disposizione della cittadinanza. Ma il prezzo non incide.
Io non ho dei dati correnti alla mano, però sembra che la gente spenda più volentieri i soldi per andare a una mostra che in un museo.
L’interesse nell’avere un prezzo del biglietto del museo che non sia troppo caro consente un utilizzo delle collezioni permanenti più frequente. Se propongo un prezzo contenuto o addirittura gratuito offro al mio pubblico di vicinanza la possibilità di tornare molto spesso.
Certo, c’è la possibilità di acquistarlo, anche se non è molto facile promuoverlo proprio per la lontananza tra le varie sedi. Quando lo abbiamo pubblicizzato ne avevamo venduti pochissimi tra Sassuolo e Modena, ancora meno a Ferrara.
No, non facciamo mostre itineranti, ma facciamo spesso degli scambi di opere; ad esempio, abbiamo portato a Ferrara una parte della collezione dei bronzetti, qualche medaglia, la Bibbia di Borso d’Este per un’esposizione e tra Sassuolo e Modena c’è spesso uno scambio di opere nelle nostre rotazioni di mostre. Abbiamo uno scambio continuo e proficuo tra le nostre sedi.
Fare una mostra itinerante su un territorio così piccolo ridurrebbe molto il bacino di utenza: quando facciamo una mostra cerchiamo di allargare il nostro pubblico potenziale almeno a tutta la regione, questo perché le mostre sono molto care e molto laboriose dal punto di vista della preparazione, perciò abbiamo la necessità di avere un certo numero di visitatori per far in modo che abbiano successo.
Diciamo che noi non ci siamo mai fermati. Siamo rimasti chiusi al pubblico, ma abbiamo continuato a lavorare per produrre dei contenuti culturali che fossero a disposizione del pubblico anche da remoto.
Abbiamo lavorato tantissimo sulla nostra offerta didattica, migliorando la nostra sfera di azione, ad esempio per i percorsi scolastici: se prima li facevamo solo in presenza per le provincie vicine alle nostre sedi museali, adesso li proponiamo a tutta l’Italia, anche a regioni molto distanti come la Campania e la Calabria. I prodotti che proponiamo online non sono la riproposizione delle attività in presenza, ma completamente diversi.
Abbiamo lavorato moltissimo sulle azioni future del museo, usando questa crisi profonda come opportunità per accrescere il raggio di azione del museo.
E poi stiamo facendo un’azione importante dal punto di vista dell’amministrazione per rendere il museo sempre più digitale anche per quanto riguarda il back end, migliorando le nostre infrastrutture amministrative.
Infine abbiamo continuato a lavorare sui nostri progetti infrastrutturali, sui restauri e sui nostri cataloghi: insomma, non ci siamo mai fermati, anzi abbiamo lavorato molto di più dovendo ripensare completamente al modo in cui abbiamo lavorato finora.
Ci sono delle persone da cui ho imparato molto, sia come modo di pensare che come modo di fare, dei colleghi o dei maestri.
Ho sicuramente imparato moltissimo dal mio professore di tesi universitaria, Herbert Kessler che è stato un grande dell’Arte Medievale e che mi ha insegnato moltissimo dal punto di vista del pensiero.
Così come ho imparato molto sul mestiere del curatore da un collega di Baltimora, William Noel, che è un geniale curatore di manoscritti e uno dei primi che si e dedicato ai progetti di digital humanities e digitalizzazione.
Ho studiato e lavorato con molte persone che mi hanno fatto crescere.
Il contemporaneo fa assolutamente parte del nostro raggio di azione e lo sarà anche in futuro. Abbiamo fatto diverse cose, come l’installazione site specific di Mario Nanni al Palazzo Ducale di Sassuolo, una mostra di Sidival Fila, una mostra con le foto di Laurence Beck, un intervento in galleria estense con De Marco e Talbot con una parte tutta contemporanea.
Non abbiamo mai smesso di pensare al contemporaneo: abbiamo una collezione che si compone principalmente di arte antica, ma quando si parla di questa non bisogna mai dimenticare anche l’Ottocento, per cui siamo molto legati e molto interessati ad affrontare il tema del contemporaneo.
Era un’opera che non era stata acquisita. Era solamente un’installazione temporanea, durata quasi un anno perché non avevamo previsto un allestimento perpetuo per cui anche per motivi di conservazione si devono poi togliere.
Come previsioni andiamo sicuramente al 2022. Questo perché le mostre temporanee hanno un’organizzazione complessa, con dei prestiti che vanno negoziati, e si fa fatica a ottenere delle posticipazioni nel caso in cui saltasse tutto.
Il nostro rapporto con l’arte contemporanea in ogni caso è inteso nel rapporto con nostre collezioni, non ci piace prendere una cosa e metterla lì solo perché è contemporaneo. Deve avere una connessione ed essere in dialogo, uno strumento di racconto di quello che noi abbiamo e che possiamo trasmettere al pubblico.