Dal 17 Ottobre al 10 Gennaio 2021, presso la Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia, è possibile visitare True Fictions, la mostra a cura di Walter Guadagnini che offre un ampio sguardo su quello che è ed è stato l’ambito della fotografia visionaria dagli anni ’70 ad oggi.
O meglio, era possibile visitarla in presenza fino al 5 Novembre: da venerdì 6 Novembre è entrato in vigore l’ultimo DPCM che ha portato con sé diverse restrizioni e, nonostante le misure prese nel rispetto assoluto delle norme di sicurezza, gli istituti museali non sono stati risparmiati e sono stati chiusi a livello nazionale. Di fronte a questa battuta d’arresto non indifferente, Palazzo Magnani si è rimboccato le maniche per permettere ai suoi visitatori di vedere comunque la sua mostra o, meglio, ascoltare, ispirandosi alla raccolta di racconti Favole al Telefono di Gianni Rodari.
Opere al telefono si svolge tutti i mercoledì, dalle 15 alle 17, fino al 23 Dicembre. L’iniziativa si regge sulla disponibilità dei curatori che affermano
Si tratterà di una chiacchierata per restare in contatto, nell’attesa che l’emergenza si concluda. Per restare attivi, per restare in quella comfort zone che in questo momento solo la fantasia ci può dare.
A cento anni dalla nascita, Palazzo Magnani rende così onore a Gianni Rodari prendendo spunto dall’autore che la sera raccontava al telefono la favola della buonanotte alla figlia lontana.
Per accedere alla chiamata è necessario sfogliare il catalogo di mostra e scegliere l’immagine di cui più desideriamo conoscere i particolari e la storia e chiamare il numero 0522/444446: non solo sarà possibile ascoltare ma anche porre domande riguardanti le singole opere, dalle tecniche utilizzate alla vita degli artisti che le hanno concepite. Una vera e propria chiacchierata insomma, fatta di botta e risposta! Possiamo così godere della mostra in una modalità alternativa e, come ci insegnano gli artisti visionari, cercare di carpirla per crearne una nostra personale visione, al di là della nostra dimensione, fisica e concettuale.
In attesa di una prossima e speriamo vicina riapertura, vogliamo raccontarvi True Fictions e ciò che siamo riusciti a vedere prima della chiusura delle porte degli spazi di Palazzo Magnani.
Grazie ad un percorso scandito dalla presenza di ben più di cento opere realizzate a grandi dimensioni, quello che ci viene riservato è uno spaccato sulla cosiddetta staged photography: un movimento che ha irretito la fotografia e il suo linguaggio tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo conferendole un diverso significato che, a sua volta, è stato trasportato all’interno di una dimensione inconsueta al mondo della macchina fotografica ma vicina a quella cinematografica. Proprio così: la fotografia visionaria va oltre la realtà, oltre il semplice canale dell’obiettivo, inserendo, all’interno del fotogramma, elementi irrealistici o non congruenti all’ambiente della foto, col fine rivoluzionario di interagire profondamente con lo spettatore affinché egli sviluppi una visione del tutto soggettiva ed interpretativa del soggetto che si accinge ad osservare. Scopo elevato e non facilmente raggiungibile, ha incontrato le idee e gli occhi visionari, appunto, di numerosi artisti di cui ben 32 sono riportati all’interno della mostra. La macchina fotografica diventa non più solo specchio della realtà ma anche e soprattutto dell’immaginazione, costruendo realtà fantastiche e parallele grazie all’utilizzo sapiente della performance e della scultura, della tecnologia e della pittura insieme al teatro, dando vita a scenari più che surreali, a tratti divertenti e distopici e a tratti pressoché inquietanti, per la mescolanza degli elementi e delle ambientazioni scelte.
È precisamente nel 1977 che il mondo dell’arte inaugura questa nuova sensibilità: all’Artists Space di New York viene organizzata la mostra Pictures curata da Duglas Crimp che presenta il lavoro di cinque artisti emergenti tra cui Cindy Shrman col suo Untitled Film Stills, ispirato ai B-Movie degli anni ’50 dove assume le vesti di protagonista, e David Levinthal con la sua Hitler Moves East. La prima generazione di questa corrente artistica traeva ispirazione dalla cultura popolare degli anni ’70 e ’80 sottoposta ad una crescita esponenziale, cercando di metterne in risalto sia difetti che pregi: i protagonisti erano o gli artisti stessi o i loro familiari e amici oppure attori professionisti, giocattoli e manichini in veste di surrogati dell’essere umano.
Tra gli artisti più rappresentativi non si può non menzionare Sandy Skoglund: fotografa ma anche grande scultrice, costruisce di mano propria, utilizzando ceramica e resina, gli animali dai colori sgargianti che sconvolgono le sue opere. Dalle volpi rosso acceso che contaminano l’elegante sala da pranzo di un ristorante in Fox Games del 1989 ai pesci fluorescenti e fluttuanti nella camera da letto di Revenge of the Goldfish del 1981. Un caos dai contorni fiabeschi, come si ravvisa anche nell’affresco della vita famigliare americana di True Fictions Two. A detta di Sandy Skoglund:
Spesso ho sentito che il mio lavoro è come una bella trappola: una volta che inizi a guardare, puoi vedere sempre di più.
Jeff Wall rende la composizione la protagonista assoluta dei suoi scatti creando rimandi alla pittura, al cinema e all’arte concettuale, ponendo la violenza e l’erotismo al centro delle proprie tematiche. James Casebere favorisce, anch’egli, la fotografia concettuale esplorando il rapporto interconnesso tra architettura, fotografia, scultura e cinema in cui la figura umana si presenta assente e lo spettatore diviene l’unico protagonista. Samuel Fosso , ispirato dalla cultura africana, si sofferma in particolare sui costumi dei propri soggetti, mentre Erwin Olaf raggiunge la fama con i suoi ritratti stilizzati realizzati all’interno di ambienti teatrali, creati in studio grazie ad un uso sapiente della luce. Thomas Demand a sua volta sviluppa un percorso creativo a fianco dell’arte concettuale, ispirandosi ad immagini di luoghi importanti in ambiente politico. Allo stesso tempo Bruce Charlesworth mescola, invece, elementi di narrativa prettamente cinematografica ad altri onirici, con set ridotti e pochissimi elementi dai colori molto luminosi, appositi per accentuarne la teatralità. Le pose sono spesso improvvisate e accompagnate a figure sfocate. La vita famigliare della classe media americana viene meticolosamente raccontata da Nic Nicosia con le sue contraddizioni e complessità, valorizzando soprattutto gli ambienti universalmente conosciuti all’interno del focolaio domestico quali la cucina e la camera da letto, ritratti con grande ironia.
Family Docudrama di Eileen Cowin è la curiosa serie esposta riportante versioni ricostruite e drammatizzate al fine di risultare realistiche con immagini slegate le une dalle altre che colpiscono per la familiarità trasmessa, mescolando esperienze personali e soap opera. Sono i parenti stessi della Cowin i protagonisti delle sue opere in cui non vi è alcun tentativo di svelamento ma solo semplice osservazione degli eventi.
Bernard Foucon, tra i pionieri della staged photography, rende i manichini i veri protagonisti indiscussi delle proprie opere, liberandoli dall’immobilità della vetrina, da cui Summer Camp, ambientata in Provenza. Laurie Simmons si annovera tra gli artisti più interessanti: luogo privilegiato della sua arte sono le case delle bambole da cui si dedica alla realizzazione dell’interno delle case della middle class americana facendo uso generoso del photocollage.
Si passa poi per il surrealismo e l’inconscio rammentanti Magritte di Teun Hocks, di cui si rende protagonista, fino all’intervento del fotografo che si rende sempre soggettivo a detta di Gillian Wearing, la quale utilizza sovente maschere. Si distingue per lo stile narrativo, suggerito e mai raccontato, Tracy Moffatt tramite l’utilizzo di lacune e salti temporali.
Andrea Serrano, invece, ha spesso diviso l’opinione pubblica per i suoi scatti considerati fortemente provocatori, forieri di numerose polemiche, come in A History of Sex dove rende esplicito il proprio interesse per i temi più controversi della società contemporanea tra cui la sessualità e le sue declinazioni, la religione e le sue pratiche, il voyeurismo e la morte, tramite immagini seducenti ma al contempo inquietanti.
Hanna Starkey privilegia le donne( interpretate da attrici professioniste o conosciute per caso ), inserendole in ambienti molto curati, ponendo una particolare attenzione ai momenti di passaggio che costituiscono una pausa per coloro che vivono la vita frenetica delle grandi metropoli: esse appaiono isolate dal resto del mondo, perfino lontane dallo spettatore che le osserva, sia che siano da sole o in gruppo, senza celare un desiderio voyeuristico di introdursi nella loro intimità.
Yasumasa Morimura dà precedenza all’intersezione tra cultura occidentale e orientale, realizzando una serie di ritratti riportanti maestri del mondo dell’arte e stelle del cinema.
Joan Foncuberta mette in crisi la nostra idea di realtà e autorità conditi da una forte narrazione ed ironia mentre Hiroshi Sugimoto ricrea immagini mentali che afferma ” per quanto falso sia il progetto, in fotografia sembra vero “, privilegiando la dimensione del tempo e dei dettagli, il bianco e il nero.
Chan Hyo Bae ricerca l’eccellenza occidentale che tanto ammirava ma da cui viene rifiutato sentendosene alienato, demolendo l’identità di genere e interpretando protagoniste delle maggiori fiabe dell’Ovest.
Miwa Yanagi critica profondamente la condizione femminile in Giappone dove le donne non vengono realmente riconosciute come persone libere di esprimere sè stesse ma sempre soggiogate alla tradizione che le vuole e le rende schiave, madri e mogli. Da qui la nascita della serie My grandmothers in cui l’artista chiede alle protagoniste, tra i 20 e 30 anni, di immaginarsi di lì a 50 anni, conquistando le loro vite e assumendo il controllo delle propria esistenza grazie al coefficiente temporale.
Hiroyuky Masuyama, amante della cultura classica europea, dedica le sue serie ai grandi pittori del romanticismo ottocentesco, riportandone lo spirito passionale che tanto ammirava. Lori Nix si propende per un crudo realismo incorniciato da scene desolate ( suoi luoghi d’infanzia ): esse non sono reali ma ricostruite dall’artista.
Yeondoo Jung fa uso generoso della tecnologia all’interno di luoghi reali dando forma ad una realtà virtuale, sulle orme dei registi teatrali, e, a sua volta Emily Allchurch prende spunto dai dipinti dei grandi maestri della pittura per raccontare il mondo contemporaneo: scatta fotografie a luoghi ed edifici di Londra sovrapposti in seguito all’immagine di partenza dando luogo ad un lavoro di collage tramite l’utilizzo di Photoshop, comprimente tanti spunti differenti in una singola scena. La torre di Babele di Bruegel ne è un esempio in cui agli oggetti viene negata qualsiasi tipo di narrazione. Paolo Ventura si rifà ai racconti antichi dei parenti tramite cui ne ricostruisce gli ambienti, facendoli rivivere tramite un lavoro dettagliato e certosino.
David Lachapelle, inizialmente accostato ad Andy Warhol, propende per i colori puri, le ambientazioni fantastiche e le personalità famose.
Alison Jackson si domanda cosa facciano durante la loro quotidianità le celebrità e risponde con le proprie fotografie, in particolare dopo la morte di Lady Diana.
Infine, Julia Fullerton Batten si dedica alle dinamiche sociali focalizzandosi sull’utilizzo della luce e del colore al fine di intensificare la storia.
La Fondazione di Reggio Emilia rassicura sullo sviluppo di una cultura sempre più online a cui si sta convertendo per non farsi trovare impreparata rispetto al primo lockdown:
Nel frattempo, sono in fase di progettazione tante iniziative che il pubblico potrà fruire a distanza per riempire il vuoto creato da questa chiusura. Arriveranno a breve talk, visite virtuali, interviste e incontri on line con il curatore Walter Guadagnini, il direttore Davide Zanichelli e con molti dei giovani fotografi e dei maestri presenti nelle due collettive fotografiche, visibili in modalità on line sul sito e attraverso i canali social della Fondazione Palazzo Magnani.