Inaugura oggi, mercoledì 22 febbraio, la personale del fotografo Marco Scozzaro ‘Digital Deli’. Dove? Al 126 di Baxter street, New York, dove si trova il ‘Camera Club of New York’, una delle più antiche istituzioni artistiche della città. Rimarrà fino al 25 marzo, quindi c’è tutto il tempo per programmare un bel viaggetto oltreoceano e scoprire questo artista modenese classe ’79, ora newyorkese d’adozione e collaboratore per testate come il New York Times, GQ, Vice.
Noi di Mocu ne approfittiamo per riproporvi l’intervista che gli abbiamo fatto nel giugno 2015 durante una sua tappa casalinga.

 

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Marco, come procede il tuo lavoro a New York?
“Da quando sono qui mi occupo soprattutto di fotografia editoriale. Quello che mi chiedono di più ultimamente è l’environment portrait: non solo un ritratto, ma anche tutto quello che circonda il protagonista della foto. Immagini di interiors, dettagli del suo mondo: mi chiedono di dare un’interpretazione degli spazi che mi circondano e che circondano la vita del personaggio stesso, in modo da creare una sorta di piccola narrazione.
Parallelamente ho sempre portato avanti il mio discorso artistico, che in realtà non è molto diverso da quello professionale. Certo, un assignment è sempre un lavoro e capita di dover fare i conti con persone con cui non instauri del feeling, ma proprio per questo può diventare ancora più stimolante. Ti faccio un esempio: in America il lavoro del photoeditor dentro una redazione è molto più importante che in Europa, qui cercano dentro alla loro rosa di fotografi quello giusto per fare lo scatto giusto, per quel tipo di storia, cercano spesso di legare un certo tipo di sensibilità estetica con quello che si deve fotografare. Tornando al mio percorso artistico, ho fatto un paio di mostre a New York, l’ultima l’anno scorso. Ora sto lavorando a un progetto, un libro: si chiamerà ‘Maggio’”.

Tornando all’editoria, hai iniziato a lavorare con magazine di un certo calibro…
“Recentemente ho lavorato per Il New York Times, Wallpaper GQ, molte riviste indipendenti tipo Gourmand, It’s Nice That, Vice. Generi molto diversi tra loro… mi piace essere versatile”.

Quanto ti ha influenzato il clima culturale e artistico di Modena?
“Prima di parlare di essere modenese, vorrei parlare dell’importanza di essere italiano. Per me a livello culturale l’Italia non ha eguali: è proprio andando a New York che ho capito quanto sia stata importante la mia formazione italiana. Di conseguenza anche Modena, anche se non ci sono nato: sono di origini siciliane e ci sono arrivato che avevo 14 anni, ma mi sento comunque un modenese. Ed è stato fondamentale, con il senno di poi, fare parte di una realtà provinciale dove c’erano comunque un sacco di cose: persone e luoghi che facevano tanto per la musica, realtà come Sartoria Comunicazione, le tante gallerie, i diversi personaggi che indubbiamente hanno lasciato un segno nella cultura intesa in un’accezione molto ampia, includendo arti visive, musica, design. Da un punto di vista visuale, sono stato influenzato da Luigi Ghirri e dalla sua attenzione ai dettagli, ai cambiamenti. Chiunque faccia fotografia in Italia deve qualcosa a quel tipo di sensibilità che adesso sento molto mia, in special modo nel progetto del libro ‘Maggio’: ho trovato in me un’attenzione ai dettagli tutta nuova, che sia una strada o un pezzo di marmo. E questa per me è un po’ una sensibilità ghirriana”.

A New York insegni anche?
“Tengo un workshop intensivo di fotografia alla School of Visual Art (dove ha studiato anche Keith Haring). Ho fatto per due anni l’assistente al professore del workshop e poi lui mi ha proposto di insegnare in un corso di Fashion Photography: ora la classe è mia! In America c’è molto dinamismo: quando esci dal college se sei bravo ti chiedono subito di insegnare, cosa che in Italia non succede”.

Se dovessi tornare in Italia, come ti vedresti?
“Mi preoccupa pensare che il mio lavoro potrebbe portarmi a vivere per esempio a Milano, cosa che ho già fatto e che non mi è piaciuta. In una città di quel tipo ci sono alcune regole non scritte a cui devi adeguarti, cosa che poi succede anche a New York. C’ è una sorta di codice per cui se sei in linea o sei bravo a essere in linea va bene, se invece sei una persona riservata le cose si fanno dure.
questo però non esclude il fatto che vorrei avere più contatti con l’Italia: da quando vivo a New York ho lavorato anche per alcune riviste italiane (Vogue, Rolling Stones, Case da Abitare), ma mi piacerebbe aumentare ancora la collaborazione. Vorrei raggiungere un livello professionale che mi permetta di essere in tanti luoghi contemporaneamente, di lavorare di più spostandomi tra Italia e New York cercando per esempio contatti con photo editor italiani. Se penso alla grande tradizione editoriale che abbiamo… mi piacerebbe vedere un prodotto editoriale italiano che non scimmiotti le riviste straniere”.

 

MARCO SCOZZARO