Michele Matteini si è trasferito dalla provincia di Modena agli Stati Uniti nel 2002, per un dottorato di ricerca. Poi ha deciso di rimanere per insegnare Storia dell’Arte dell’Estremo Oriente alla New York University. La nostra volontà di dare voce a chi lavora nel mondo della cultura ha seguito i nostri compaesani fino in America. Grazie a Michele possiamo capire in che modo le istituzioni della formazione, come le università, stanno affrontando questo nuovo contesto.
Ciao Michele, negli Stati Uniti l’emergenza è arrivata con qualche settimana di ritardo. Il tuo legame con l’Italia ha influito sul tuo atteggiamento verso la situazione?
In realtà, dal momento che lavoro con la Cina, ho iniziato a conoscere il virus a gennaio, quando alcuni colleghi cinesi hanno iniziato il lockdown. Molti dei miei studenti a NYC sono cinesi e ho iniziato molto presto a sentire le loro storie.
Sin dall’inizio ho capito che sarebbe diventata un’emergenza mondiale e sono ancora sorpreso da quanto poco si è fatto qui e in Europa mentre la situazione stava degenerando. Sono rimasto, ahimè, molto colpito da vari episodi di razzismo nei confronti di persone cinesi e dal senso di superiorità del mondo occidentale.
Quando il virus è arrivato in Italia ho capito che sarebbe arrivato molto presto anche qui, anzi, che sicuramente era già qui.
L’Università ha preso fin da subito dei provvedimenti?
Nel giro di una settimana la New York University ha spostato tutta la didattica online e imposto un lockdown immediato.
Noi professori abbiamo avuto accesso ai nostri uffici per un paio di settimane, ma dormitori, residenze universitarie e biblioteche hanno chiuso subito. Ci sono state due settimane di transizione, facilitate dallo Spring Break, e poi tutto ha riaperto online.
L’università ha una popolazione studentesca internazionale e agli studenti è stato richiesto di tornare a casa. Il problema è che non tutti hanno una casa, o per lo meno una casa accogliente e comoda. Molti studenti sono andati a vivere con altri amici o parenti. Io faccio lezione a studenti con cinque fusi orari diversi.
La New York University è un’università con una amministrazione molto efficiente e ottime risorse a livello economico e intellettuale. Purtroppo, forse per via della velocità con cui è successo tutto, non sono state sempre prese le decisioni migliori. Ora si sta provvedendo.
In Italia tutte le istituzioni di formazione hanno predisposto l’utilizzo delle lezioni online, pur con alcuni problemi riguardo la comunicazione tra professore e studente, che diventa difficoltosa se non vissuta in presenza. Un problema ancor maggiore nell’insegnamento e nella comunicazione della storia dell’arte, che spesso presuppone la visione diretta delle opere. Come professore hai avuto difficoltà riguardo questo cambiamento?
Noi utilizziamo Zoom che è una piattaforma facile, versatile, e creativa. Riesco a fare quasi tutto, ma l’esperienza è sicuramente diluita e mediata.
Siamo fortunati perché abbiamo passato la prima metà del semestre in classe, conoscendoci e facendo varie visite in musei e gallerie. Ora viviamo di rendita.
Purtroppo, nel caso di un seminario incentrato su una mostra specifica al Metropolitan Museum, abbiamo organizzato una serie di visite virtuali con il curatore. Non sempre funziona come vorrei. Trasferendo i corsi online, ho dovuto ripensare agli esami finali. Senza accesso alle opere o alle biblioteche, è quasi impossibile per gli studenti creare qualcosa di originale. Bisogna essere creativi. Se dovessimo essere online anche il semestre prossimo, si dovrà pensare a corsi che nascono e si concludono online. La didattica online non è semplicemente didattica trasferita sul digitale, ma richiede una preparazione molto diversa. Noi, come corpo docenti, non siamo formati in questo, anche se devo dire che la partecipazione dei miei colleghi è stata esemplare.
Gli Stati Uniti sono, in molti casi, un passo avanti a noi per quanto riguarda l’uso del digitale. Potresti darci la tua opinione sulla sovraesposizione mediatica alla quale stanno contribuendo in gran parte anche i luoghi dell’arte?
Le digital Humanities sono un campo di ricerca vivacissimo e sicuramente molto importante, ma non sostituiscono l’esperienza diretta sull’oggetto. Non si può studiare la ceramica cinese senza aver mai visto una porcellana dal vivo.
Le immagini rendono tutto leggibile e chiaro, ma non sono queste le cose che importano nell’arte. Si appiattisce tutto a un mondo in due dimensioni, accessibile e fruibile in un istante. Io cerco di trasmettere agli studenti la passione per l’esatto opposto: le domande senza risposta, il piacere di quello che non si capisce subito, le contraddizioni insite in ogni opera d’arte. Il digitale regala l’illusione della simultaneità e dell’accesso illimitato. Non sempre va bene.
I tuoi studenti, futuri addetti ai lavori del campo culturale, vengono maggiormente stimolati da questi contenuti o, al contrario, tentano di allontanarsene?
Non saprei. Ho studenti che sono molto a loro agio con le nuove tecnologie; altri che studiano le discipline umanistiche per staccarsi ‘dalla macchina’ e perdersi in un libro (di carta).
Ci saranno molti cambiamenti alla fine dell’isolamento, nuovi metodi di fruizione e di lavoro, metodi più restrittivi per rispettare il distanziamento sociale. A New York sono già state messe in campo proposte da parte delle istituzioni e dei luoghi della cultura?
La situazione è disastrosa e sarà disastrosa per molto tempo nel post-pandemia. Non tutti i problemi sono nati ora, ma la pandemia ha dimostrato la fragilità di un sistema che si stava sgretolando senza che nessuno volesse vederlo. Per ora tutte le internships e gli stages sono stati sospesi, e non saranno ripresi per un po’ di tempo. Questo significa che chi inizia ora ad interessarsi al mondo dell’arte dovrà aspettare chissà quanto prima di poter fare quelle esperienze fuori dall’università che sono determinanti per capire questo campo. Non è possibile sostituire tutto questo con uno schermo del computer.
Molti musei e istituzioni culturali hanno usato la pandemia per fare tagli al personale che erano già previsti. Come spesso succede, i tagli riguardano volontari o collaboratori di basso livello, non direttori. I musei si salveranno trincerandosi dietro un’antiquata struttura gerarchica, tagliando tutte le iniziative di education e outreach che rendono il museo vivo. Questo è un problema molto grave, ma non vedo alternativa ora.