Il secondo appuntamento di questo 2021 al CrAc Spazio Arte di Castelnuovo Rangone (il primo è stato raccontato da MoCu in questo articolo) vede protagoniste le opere di Giulia Dall’Olio, disegnatrice e pittrice bolognese, nata nel 1983 e diplomatasi in Pittura all’Accademia di Belle Arti della città.
Nonostante l’inaugurazione sia avvenuta senza pubblico a causa delle normative anti-Covid e presentata in una diretta Facebook dal luogo dell’evento, la mostra è visibile fino a fine maggio per chiunque passi nel centro di Castelnuovo grazie alle ampie vetrate del CrAc.
Alessandro Mescoli, curatore della mostra, nella sua presentazione ha sottolineato l’ormai considerevole numero di artisti che hanno esposto al CrAc dal 2016 a oggi e l’importanza di non rinunciare a progettare e proporre cultura e bellezza anche in questi tempi che richiedono uno sforzo organizzativo maggiore.
Abbiamo posto alcune domande all’artista in merito ai lavori esposti e ai suoi progetti per il futuro.
Intervista a Giulia Dall’Olio
L’alternarsi in mostra di opere di formato estremamente differente, il bianco e nero, il segno grafico quasi astratto che si fonde con la rappresentazione realistica della natura mi hanno ricordato un artista: Nicola Toffolini; inizio dunque con il porti la stessa domanda che feci a lui: cos’è per te il disegno?
Per me il disegno è la bellezza racchiusa nell’apparente semplicità di un gesto che si porta dietro mille domande e mille dubbi. In un solo segno può racchiudersi una creazione nuova, un pensiero, un’emozione. Mi rammarico di averne preso coscienza solo recentemente.
La tecnica con cui realizzi le tue opere su carta è basata sulla sottrazione: puoi spiegarci in cosa consiste?
Dopo una stesura piatta del pigmento sul supporto cartaceo, mediante l’impiego di diversi tipi di gomme a seconda del segno che voglio replicare, cancellando restituisco una corporeità alle forme.
La natura che rappresenti in queste opere ha i caratteri del bosco sacro in cui hanno luogo i riti iniziatici? O della selva oscura in cui perdersi, perdere coscienza di sé e fare esperienza dell’oscurità?
Direi decisamente i caratteri della selva in cui perdersi e prendere coscienza di sé. Nella moltitudine di segni che in un primo momento traccio sulla carta, con le mani sporche di carboncino, la natura appare e scompare, vive e muore, avendo la pretesa (e lo dico sorridendo perché magari non sarà così) che poi rinasca e continui il suo movimento nell’immaginario di chi osserva l’opera.
Nel mio immaginario invece, le opere diventano una zona di comfort, il luogo che non posso vivere fisicamente, ma mentalmente. Nel momento in cui creo, quella natura diventa il mio spazio momentaneo da abitare con lo sguardo e con i pensieri; diventa un pretesto per guardarsi dentro come fosse uno specchio, fino a quando l’opera non lascia lo studio… allora arrivano altre domande, altre idee e di conseguenza altri spazi da creare e su cui lasciare i solchi e i segni dei miei pensieri.
Quali sono i prossimi progetti espositivi a cui stai lavorando?
Attualmente, essendo una degli artisti selezionati per l’ottava edizione di ArtVerona di Level0, sto lavorando a un progetto espositivo per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con la collaborazione di Galleria Studio G7 e Traffic Gallery.
Intervista a Maria Chiara Wang
La curatrice, insieme ad Alessandro Mescoli, di questa mostra è Maria Chiara Wang; le abbiamo posto alcune domande in merito al suo testo critico e allo stato dell’arte oggi.
Da cosa è nata l’idea di fare riferimento al sacro con il titolo della mostra Ierofanie Vegetali?
La scintilla è nata dall’incontro tra il mio studio della ricerca artistica di Giulia, del suo pensiero e del suo sentire, e la contestuale lettura del saggio Il sacro e il profano di Mircea Eliade. In particolare il terzo capitolo di questo testo, dedicato dallo storico delle religioni e mitologo rumeno alla sacralità della Natura, è stato illuminante per i diversi punti di contatto tra le sue teorie e le forme del sacro che si manifestano nella vegetazione folta, rigogliosa, a tratti incombente, dei disegni in mostra.
Presentando le opere di Giulia le hai definite seducenti, secondo una delle etimologie del termine che indica ciò che porta altrove, lontano dal qui e ora: puoi descriverci questo percorso di lettura che spazia da ciò che è tangibile e conosciuto a ciò che è fuori da questa dimensione e perturbante?
Come ho scritto nel breve testo critico che accompagna la mostra, davanti alle opere di Giulia si rimane ipnotizzati, immobilizzati, sollevati ed estraniati dal presente.
Incapaci di decodificare immediatamente “l’oggetto visivo” che ci troviamo davanti, attiviamo lo sguardo e la memoria per rintracciarvi forme e visioni conosciute che ci aiutino a risolvere e a dare una risposta a questa incertezza, e una descrizione a tale ambiguità. Ma l’esplorazione dei paesaggi che emergono dal nero del carboncino è possibile solo nell’isolamento e nell’astrazione dal qui e ora.
La tensione che si crea tra opera e spettatore, non è altro che la manifestazione di una tensione già presente all’interno del lavoro di Giulia: la vegetazione dei suoi disegni se da un lato attrae, dall’altro, nella sua intensità e imponenza, intimorisce, stupisce, sconvolge e travolge. In tal senso sono paesaggi perturbanti e seducenti.
Il CrAc per le sue caratteristiche inusuali si presta alla perfezione a questi tempi: una vetrina attraverso le cui pareti trasparenti si può esperire l’opera d’arte senza contatti interpersonali e restando all’aperto; da curatrice, di quali degli aspetti degli eventi artistici del “prima” credi che si senta di più la mancanza oggi?
Forse la risposta è un po’ scontata, ma sicuramente manca il contatto umano, la relazione diretta, il poter usare anche gli altri sensi oltre alla vista e all’udito oramai iper sollecitati dalle varie dirette sui canali social. Il mondo attraverso lo schermo è tremendamente piatto, liscio e inodore… alienante.
Da orso quale sono, non mi manca invece la mondanità!