Un’opera d’arte venduta per 141.000 dollari non è nulla di nuovo. Ma cosa succede se scopriamo che stiamo parlando di una “semplice” opera d’arte digitale? Una di quelle immagini che possiamo trovare su internet o su qualsiasi social network riprodotta nelle più svariate forme.
La maggior parte del pubblico, anche quello degli “addetti ai lavori”, relega l’arte digitale in una piccolissima nicchia del mercato, spesso non riuscendo nemmeno a classificarla come arte.
Quando Alessandro Mescoli, curatore di CRAC Spazio Arte di Castelnuovo Rangone, ha deciso di mettere in mostra gli Hackatao, ha aperto le porte di questa nicchia, portando il pubblico nel mondo della Crypto Art.
Token e blockchain
Potremmo parlare di token e di blockchain, ma andiamo per gradi.
Nell’era dei Bitcoin era solo questione di tempo prima che qualcuno pensasse di utilizzare lo stesso metodo per creare e vendere opere d’arte.
Nel 2016 qualcuno digitalizzò Pepe the Frog, un meme disegnato da un fumettista di nome Matt Furie, ne fece un disegno digitale e provò a venderlo su blockchain: lo comprarono!
Quella fu la prima transazione tramite blockchain, da quel momento iniziò a crearsi un vero e proprio mercato di opere digitali criptate.
Il meccanismo è lo stesso utilizzato per le criptovalute, ma con una particolarità: nel caso dei Bitcoin ogni criptomoneta ha un codice, detto token, che è intercambiabile (tutti i Bitcoin sono uguali e hanno lo stesso valore), mentre alle opere d’arte digitali, quando vengono registrate su blockchain, viene assegnato un token unico e non intercambiabile, detto NTF (non-fungible token). Questo rappresenta la certificazione dell’opera, la sua autenticità.
Nel momento in cui avviene la transazione, l’operazione viene registrata sulla blockchain (un sistema che funziona come un foglio di calcolo non modificabile e approvato da un gruppo di persone) e questo determina in maniera assoluta la proprietà dell’opera.
In poche parole la Crypto Art è Arte Digitale tokenizzata su blockchain.
Nel caso della mostra Promised Land di Castelnuovo l’idea di far dialogare un’opera di Crypto Art con un Mosè del Guercino può sembrare azzardata, ma gli Hackatao, il primo duo di artisti a dedicarsi all’arte criptata in Italia, ha lavorato su un tema molto attuale: quello dell’esodo.
Di seguito le parole di Eleonora Brizi, prima curatrice italiana di arte digitale e Crypto Art e co-curatrice della mostra Promised Land, che ha fatto luce su questo movimento artistico emergente.
Intervista a Eleonora Brizi
Le prime forme di Crypto Art nascono nel 2016, in quel momento tu lavoravi come assistente per un artista che non ha bisogno di presentazioni: Ai Weiwei. Avevi già iniziato a captare qualche cambiamento nel mercato dell’arte?
Ho lavorato con lui per quattro anni. Dopo aver studiato cinese all’università ho preso un biglietto di sola andata per la Cina e ho iniziato questa bellissima esperienza con Ai Weiwei, che era in realtà il mio primo lavoro. Era il periodo in cui gli era stato ritirato il passaporto, non poteva andare da nessuna parte, perciò “il mondo veniva lì”. Sono stati quattro anni divertenti, per me è stata una scuola più che un lavoro.
Sono stata in Cina fino a marzo 2018, poi mi sono trasferita a New York, dove ho scoperto la blockchain. Quello è stato sicuramente l’anno più florido per la Crypto Art perché era stato organizzato il primo festival, al quale hanno partecipato CryptoPunks, Dada e Rare Pepe, prima era tutto molto lento.
Finché non ho messo piede a New York non avevo visto niente. In Cina con tutte le restrizioni che ci sono, i siti chiusi e bloccati era molto difficile vedere queste cose.
Quando hai iniziato ad interessarti di Crypto Art e quali sono gli artisti con cui hai lavorato fin da subito?
A settembre 2018 sono stata portata ad una conferenza di Crypto Art dal mio coinquilino, quando ancora non sapevo neanche cosa fosse la blockchain. La prima cosa che mi ha colpito è stata l’estetica di queste opere: schermi e arte digitale. È qualcosa a cui non siamo abituati e all’occhio serve un po’ di tempo per assorbirla.
Durante la conferenza c’erano queste persone che parlavano di un sistema artistico registrato su blockchain e in dieci parole hanno scardinato tutte le colonne portanti del nostro sistema: gli intermediari. Non esistono più gallerie, banche o avvocati, il rapporto è peer to peer, artista – collezionista.
Alla fine della conferenza ho avuto bisogno di un po’ di tempo per digerire tutto quello che avevo ascoltato.
La prima cosa a cui ho lavorato è nata proprio quella sera. Sono andata a cena con le persone che avevano partecipato alla conferenza e ho conosciuto un ragazzo che stava parlando di Rare Pepe: un progetto che comprende 1.774 carte digitali che rappresentano delle rane, la prima immagine digitale registrata su blockchain.
Pepe era una rana creata da un fumettista. Questo ragazzo l’ha riprodotta e l’ha digitalizzata mettendola poi su blockchain provando a venderla: l’hanno comprata.
Dopo questo primo episodio altri artisti hanno iniziato a creare carte digitali con la rana di Pepe. Queste creazioni non venivano mandate a una galleria, ma ad un “comitato di scienziati” (come lo hanno chiamato loro) che accettava le immagini.
Ho chiesto se esistesse letteratura su questo progetto, loro mi hanno detto di no. Allora ho pensato ad un libro, The Rarest Book, un oggetto che la gente potesse capire, ma che parlasse di Crypto Art e di questo specifico progetto.
Questi sono i primi artisti con i quali ho lavorato, poi ho aperto la mia galleria.
Il fatto che non serva nessun intermediario, perciò anche gallerie e curatori diventano ininfluenti in queste transazioni, influisce sul tuo lavoro?
All’inizio sì, era proprio così, c’erano le piattaforme, dove gli artisti possono pubblicare la propria arte e il collezionista può comprare direttamente da loro. Ma dopo i primi tempi ci si è resi conto che l’arte senza la narrazione perdeva tanto valore. Tutto quello che c’è intorno all’opera, la creazione dei contenuti, è necessario per la creazione del valore. Perciò piano piano ci si è resi conto che questa cosa non poteva funzionare senza gli intermediari: si arriva a un punto dove serve la struttura giusta se si vuole arrivare a un altro livello.
Servono figure che ti aiutano a fare le mostre, a raccontare la tua arte. Se fai delle cose incomprensibili, come è l’arte contemporanea, e nessuno le spiega, nessuno parla dell’artista e della creazione, si perde tutto.
Parlami di Breezy Art Gallery: una galleria totalmente virtuale che si riversa nel mondo reale attraverso eventi in presenza. È qualcosa che hai ideato prendendo ispirazione dalle opere digitali che vengono riprodotte su supporti fisici?
L’ispirazione viene semplicemente dal fatto che le cose fisse ormai non sono più sostenibili. Ho seguito il mio istinto. Essendo una persona “mobile”, quando mi chiedevano dove avrei voluto aprire la galleria io rispondevo: “da nessuna parte”.
La galleria è un luogo che lavora un giorno ogni tre mesi, durante l’opening, perciò uno spazio fisico non l’ho mai voluto. Ma ho comunque organizzato delle mostre in giro per il mondo, come quella a Roma a ottobre. Questi sono eventi che probabilmente una galleria fisica, che ha moltissime spese, non avrebbe potuto organizzare.
Diciamo che nella blockchain anche il ruolo dell’artista è cambiato tantissimo. Da artisti sono diventati tutti dei manager: devono curare la propria comunicazione, creare le opere, cercarsi i collezionisti, mantenere le comunicazioni con gli acquirenti.
Ma piano piano capisci che se vuoi fare l’artista devi dedicare il tuo tempo alla creazione, non a fare il manager.
Allo stesso tempo penso che non si possa abbandonare completamente il mondo fisico. Si parla tanto di collezionismo digitale, nel quale quando possiedi il token non lo devi vedere, ma, parlando con collezionisti di vecchio stampo, ti rendi conto di quanto ancora sia importante possedere un’opera che puoi condividere con altre persone.
Per questo la mia galleria mette sempre insieme digitale e fisico: tutte le opere che presento hanno sempre una componente fisica. Come le tele animate in realtà aumentata degli Hackatao.
Le opere in questo mercato possono essere pagate solo tramite criptovalute?
Iniziano a esserci delle piattaforme su cui si può pagare in fiat (dollari, euro, ecc.) e questa è la direzione in cui si andrà.
Per pagare in criptovaluta puoi scaricare il tuo portafoglio digitale direttamente sul computer o sul telefono e comprare criptomonete (come bitcoin o ethereum) sui siti di exchange. Nel momento in cui compri criptovaluta ti viene assegnato un indirizzo che funziona come l’iban.
Dopo di che puoi andare sulle piattaforme dove trovi Crypto Art, come SuperRare, e fare le tue offerte per le opere, come in un’asta.
Su SuperRare tutti possono vedere cosa compri e quanto l’hai pagato, come su un social network.
Sì, sulla blockchain tutte le transazioni devono essere visibili per chiarezza e trasparenza, sono delle transazioni approvate da tutti.
Questa cosa poi si e trasformata in un “mostro”. Solitamente nel mondo dell’arte i collezionisti ti chiedono uno sconto sulle opere, mentre nel mondo della blockchain lo sconto non lo vogliono perché tutti vedono quanto loro pagano, addirittura qualche volta chiedono di poter pagare di più!
Chi decide quanto vengono valutate le opere?
Quasi tutte le piattaforme funzionano con un sistema ad asta, il prezzo lo fanno gli acquirenti. Puoi solamente mettere un prezzo di riserva.
Una delle maggiori problematiche nel mercato dell’arte è sempre quella dell’autenticità. Attraverso l’uso delle blockchain questo problema viene eliminato perché ogni opera che viene registrata e venduta è munita di un suo codice immutabile. Pensi che possa essere un punto di partenza per pensare di registrare ogni opera d’arte (anche quelle non digitali) attraverso un sistema che ne verifichi e approvi l’autenticità in modo automatico e non falsificabile?
Si certo Christie’s l’ha già fatto un paio di anni fa, ha tutta la collezione registrata su blockchain, perché può essere usata anche come archivio.
La blockchain, come tecnologia, credo che non sarà mai più abbandonata.
Una delle cose più interessanti della blockchain è che sul token viene automaticamente codificata e programmata una remunerazione del 10% per gli artisti a ogni nuova transazione dell’opera. Questo passaggio tutela l’artista e non solo chi detiene i diritti d’autore: questa cosa non succede nel mondo dell’arte.
Il problema più grande è sempre quando un artista emergente vende un’opera a inizio carriera per poche centinaia di euro che poi viene rivenduta per cifre molto maggiori. In questo meccanismo anche gli artisti hanno una percentuale sulla nuova vendita.
Come hai iniziato a lavorare con gli Hackatao?
Ho iniziato a dicembre 2018. Li ho conosciuti tramite Serena Tabacchi, direttrice di MoCDA, The Museum of Contemporary Digital Art, che mi ha proposto di intervistarli per il museo. Da allora ci siamo conosciuti e non ci siamo più lasciati.
Intervista agli Hackatao
Dopo l’incontro con Eleonora Brizi, anche gli Hackatao hanno risposto ad alcune domande sul loro lavoro e sull’opera in mostra al CRAC, già venduta a un collezionista privato per 141.235,92 dollari (esattamente 72 Ethereum, in criptovaluta).
Come nasce il vostro lavoro e quali sono stati i primi concetti sui quali avete iniziato la vostra ricerca?
La nostra ricerca nasce dal coniugare noi stessi con l’universo e la sua storia. Un approccio filosofico, con implicazioni psicologiche, che fondamentalmente risponde alle ataviche domande quali: “Che ci faccio sotto questo cielo stellato?”. Quindi sia universale, sia particolare. Olistico. Alchemico: infinitamente piccolo e infinitamente grande.
Quando ci siamo incontrati (gli Hackatao sono Sergio e Nadia), sono nati i Podmork, le nostre sculture totemiche. Vi era però l’esigenza di creare qualcos’altro, quindi siamo passati alla tela. Pian piano è nato il nostro stile: l’unione della parte disegnata contorta e narrativa (Sergio), con la parte flat e colorata (Nadia). Artisticamente, e non solo, ci compensiamo l’un l’altro raggiungendo quell’equilibrio in cui la creazione della parte dei disegni, che sarebbe altrimenti infinita ed andrebbe a perdersi, trova una “gabbia” e un contenitore in quella colorata, che appunto la contiene, la margina e la definisce.
Una parte interessante del vostro lavoro sono le opere su tela che si animano attraverso l’uso di tablet e telefoni. In quel momento avevate già capito che il futuro dell’arte sarebbe stato sempre più digitale?
I primi esperimenti sono iniziati nel 2012, in quanto il digitale è nel nostro DNA. A quel tempo però non sembrava trovare un senso artistico. Addirittura già negli anni ‘80, io (Sergio) avevo un Commodore Amiga e sperimentavo con l’arte digitale. Con il passare degli anni, ciò che era già presente ha trovato la sua manifestazione e ragion d’essere.
Quando avete iniziato a realizzare opere di Crypto Art?
Viviamo in Carnia, gli inverni qui sono lunghi e freddi ed è il momento in cui i montanari hanno terminato le loro attività e utilizzano questo tempo per arricchirsi, studiare, creare. Era un periodo tranquillo, non avevamo mostre in divenire e mi sono imbattuto in un articolo su “Le Scienze” che parlava in modo molto approfondito di Blockchain e delle sue potenzialità pratiche.
Alla fine della lettura mi sono detto “tutto ciò è perfetto per l’arte!”.
Quindi ho proseguito le mie ricerche su Google, cercando “Blockchain e arte” e sono arrivato ad Artnome, il blog di Jason Bailey. Ho letto i suoi articoli sulla Crypto Art e sono rimasto elettrizzato. In seguito, gli ho scritto ringraziandolo, in maniera molto pura, per avermi aperto le porte di un nuovo mondo. Lui mi ha messo in contatto con i ragazzi di SuperRare. Dopo pochi giorni abbiamo tokenizzato la nostra prima opera: Girl next Door.
La Crypto Art ci ha trasmesso tantissima energia e soddisfazione. La realizzazione delle nostre opere fisiche è lenta, il processo artistico è lungo e passa del tempo prima di poter vedere l’opera finita. La profondità e la ricerca di questo procedimento non si mettono in discussione, però a noi mancava un po’ la soddisfazione creativa del pensare e realizzare nell’immediato. Così, si è colmata la nostra esigenza di velocità. Inoltre, abbiamo avuto la possibilità di conoscere tanti altri artisti da tutto il mondo, il confronto con loro è importante, apporta nuovi stimoli e si approfondiscono nuovi mezzi per esprimere la nostra arte.
Come funziona la realizzazione di un’opera di questo genere? Viene pensata anche per supporti fisici e stampe o la create unicamente per supporti digitali?
Nel caso di Promised Land l’opera è stata pensata per vivere esclusivamente nel digitale. In alcuni casi l’opera nasce da quella fisica e poi viene ricreata in digitale.
Promised Land è un progetto ambizioso. Non è semplice riuscire ad accostare arte moderna e contemporanea riuscendo a creare un dialogo e non un contrasto. La scelta di unire queste due opere attraverso il tema ancora attualissimo dell’esodo è un modo interessante per far comunicare il passato con il presente. Ma, allo stesso tempo, c’è sempre il rischio che il pubblico non sia pronto per le novità: come reagisce davanti a opere così “forti” e inusuali come le vostre?
In realtà è stato molto più semplice di come si possa pensare. Siamo noi esseri umani a creare etichette temporali e spaziali all’arte, che di natura non ne avrebbe. Il dialogo, la narrazione, ci sono sempre stati; ne abbiamo semplicemente avuto conferma. I drammi dell’umanità (per esempio l’immigrazione), così come la voce dell’arte, non sono mai cambiati nel corso dei millenni. Cambia il linguaggio, come si può vedere nell’accostamento tra la nostra opera e quella del Guercino, ma resta immutata la sua essenza.
La mostra Promised Land è visitabile fino al 28 marzo 2021.