L’architetto Cesare Leonardi è nato a Modena il 3 giugno 1935. Si è laureato nel 1970 presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli studi di Firenze, dove ha frequentato i corsi di Leonardo Savioli, Ludovico Quaroni, Leonardo Ricci e Adalberto Libera. Alcune sue opere di design sono esposte in musei come il MoMa di New York (le sedie Dondolo e Nastro) o al Centre Georges Pompidou di Parigi, al Victoria and Albert Museum di Londra e al Kunstgewerbemuseum di Berlino. Ha, tra le tante cose, realizzato il progetto per il parco Amendola nei primi anni ’80. Un’associazione fondata da amici e appassionati cerca di catalogare e preservare il suo immenso ed eterogeneo lavoro di architetto, designer e pittore. La sua casa riflette in maniera inequivocabile chi la abita, piena di modellini e di prototipi, di libri e di ricordi.
Leonardi, qual è il suo rapporto professionale con Modena?
“Ho sempre trovato delle risposte negative con gli uomini che la gestivano, ma con la città ho un ottimo rapporto”.
Per quale motivo?
“Non lo so, ma posso farle un esempio: la storia del libro sugli alberi (L’Architettura degli Alberi, Mazzotta, Milano 1982). Andai dall’assessore per chiedere di organizzare una mostra e per vari motivi fu organizzata a Reggio Emilia”.
Perché gli alberi l’hanno sempre così affascinata?
“Dovevo fare la tesi di laurea in architettura: di idee sulle ‘forme’ ce ne sono tante, me ne serviva una che mi bloccasse e ho scoperto loro, gli alberi, il loro colore, la fioritura, le ombre che formavano. Iniziai una ricerca fotografica in giro per il mondo e mi resi conto da subito che ogni albero a seconda della latitudine o longitudine e del clima in cui veniva piantato assumeva caratteristiche diverse. Quindi ho pensato che studiando le ombre di un albero a seconda delle ore del giorno si potevano stabilire dei percorsi all’ombra nei momenti caldi della giornata”.
Nel Parco Amendola ha applicato questa teoria sui percorsi?
“No: in alcuni punti ho seguito queste mie idee, ma poi arrivò l’ingegnere Ciaccia del Comune che iniziò a fare quello che pareva a lui, e da lì nacque una lite. Ciaccia diede le dimissioni e io cercai di aggiustare le cose”.
Parlando di parchi, cosa ne pensa dell’affaire delle baracchine in quello delle Rimembranze?
“Si dovrebbero vergognare: un parco non va sovraffollato con delle strutture di cemento. È una questione di buongusto, è una cosa rivoltante, un’idea che sicuramente è venuta agli architetti del Comune che hanno questa tendenza a omologare. Io non sono d’accordo, siamo fuori da una valutazione esatta degli ambienti. A Modena non c’è la cultura del bello”.
Cosa manca realmente a questa città?
“È una domanda che mi sono posto molte volte, ma non ho una risposta. Un mio amico mi diceva sempre: ‘Noi veniamo tutti dalla campagna’. Questa frase nasce da una discussione sul fatto che a Modena si potavano gli alberi, abitudine iniziata durante la guerra perché non c’era legna per scaldarsi. In città gli alberi servono per fare ombra, invece questa cultura che l’albero doveva per forza essere come l’uomo voleva, cioè il dominio dell’uomo sulla natura, faceva sì che succedessero queste cose”.
Un architetto che gli è sempre piaciuto?
“Le Corbusier, ho visitato tutte le sue cose in giro per il mondo eccetto che quelle in India. Un uomo di grande cultura, è stato un grande innovatore, ma ovvio non solo lui… al mondo ogni tanto c’è qualcuno che si sveglia, perché sennò dormono tutti”.
Se deve pensare a un futuro anche a 80 anni, cosa vede?
“Io non penso mai di avere 80 anni”.