A marzo del 2021, il Teatro dei Venti, con un gesto delicato, regala speranza e colore al suo quartiere: un’installazione colorata al centro del parchetto antistante l’ingresso del teatro, vicino alla casa di riposo per anziani e alla scuola.
Il totem era originariamente di colore grigio e veniva utilizzato per affiggere manifesti degli eventi. Il Covid-19, come oramai è noto, ha causato una forzata interruzione di ogni evento culturale.
Che farne quindi di questo spettro grigio e abbandonato? Semplice: lo si trasforma in un inno alla bellezza e alla poesia.
Del progetto (di Andrea Grazia, realizzato dal Teatro dei Venti con il patrocinio del Comune di Modena) e della filosofia che c’è dietro ne abbiamo parlato con Stefano Tè, il Direttore Artistico del Teatro dei Venti di Modena.
Dopo l’inaugurazione del totem, sui social avete scritto: “Il Teatro non è chiuso, non cede all’abbandono, si prende cura dei luoghi con gesti semplici, ma non scontati.
Gesti d’amore, di rispetto e di arricchimento nei confronti dei residenti e di chiunque passi dal quartiere.”
Come nasce l’idea dell’installazione e cosa rappresenta?
L’installazione nasce all’interno del nostro progetto di “teatro aperto” che è una reazione alla chiusura dei teatri: è un progetto di prossimità, di contatto con l’altro, con le persone.
Il nostro “cantiere”, il luogo dove facciamo questo tipo di allenamento, è da sempre il nostro quartiere: lo abbiamo fatto quotidianamente negli anni lavorando nelle carceri, aprendo il teatro ai bambini o agli anziani e così via. Abbiamo continuato a farlo anche con i teatri chiusi perché questo non implica che il teatro non si faccia.
O almeno non il teatro come lo intendiamo noi che non è soltanto un mestiere, ma è anche un approccio di vita: questo approccio per noi è essenziale, senza di esso noi non siamo vivi. Per cui, siccome crediamo fortemente in un teatro vivo, in un teatro aperto, ci siamo messi in azione direttamente con questo luogo che, ripeto, per noi è un cantiere, un luogo di esercizio, di allenamento.
Questo esercizio aveva bisogno di un simbolo, di un manifesto visivo e questo simbolo è diventato l’installazione: inizialmente era un totem grigio dove venivano affissi i manifesti di eventi in generale ma su cui in realtà l’occhio si è sempre posato pochissimo. Era una delle tante brutture posizionate nella nostra città. Siccome noi crediamo che il ruolo del teatro sia anche quello di generare bellezza dal grigio ecco che è nata l’idea dell’installazione.
Quindici anni di lavoro in carcere ci insegnano proprio questo: vedere in quel grigio, dove ci sono coloro che sono considerati gli “scarti” della società, un luogo che genera bellezza continuamente. Almeno per me.
Abbiamo voluto trasformare il totem, un oggetto brutto di ferro messo in mezzo a un parchetto, in un simbolo, un manifesto di bellezza. Proprio in questo momento ci sono dei bambini che ci stanno correndo intorno perché la bellezza attrae. Questo ci rende molto felici: dalle nostre finestre vediamo questo totem colorato e possiamo constatare cosa sta creando giorno dopo giorno.
Sul totem leggiamo “un momento di poesia e colore” perché, in fin dei conti, la poesia è cura.
Credi che la poesia sia l’unico elemento che ci possa salvare?
Sì, è così: l’atto poetico e una vita poetica possono salvarci. Ed entrambe nascono dalle relazioni e dal contatto umano. È quindi necessario ricostruire un avvicinamento, un accostamento, un attaccamento, lasciando indietro il concetto di distanziamento.
Questa necessità di vicinanza è palpabile, si sente davvero tantissimo. Ed è questa necessità poetica che si oppone a un’isteria, alla paura che chiaramente nasce dal distanziamento, dalla preoccupazione.
Quindi dobbiamo continuare a batterci perché solo la poesia può vincere la paura. La poesia può ostacolare la preoccupazione, il distanziamento a favore dell’accostamento, dell’avvicinamento.
Abbiamo bisogno di avvicinarci un’altra volta.
In un certo senso, ci stiamo dimenticando proprio di questo aspetto: la pandemia ci ha abituati a gestire ogni incontro o riunione via Zoom o su Skype lasciando una sorta di ansia rispetto agli incontri in presenza.
Non per paura, ma perché quasi non si riesce a ricordare come ci si pone vicino a un’altra persona.
Avevo avuto la percezione di questo pericolo, per questo non abbiamo mai chiuso. Uscire dal teatro per portare le favole al citofono (del progetto Favole al citofono ne abbiamo parlato qui), arrampicarsi con una scala alla finestra di una scuola elementare e raccontare favole ai bambini, allestire questa installazione nel parchetto, andare in carcere dal lunedì al venerdì e incontrare i detenuti-attori, incontrare gli anziani della casa di riposo (dove continuiamo a fare in presenza le nostre attività), tutte queste azioni hanno salvato soprattutto la nostra natura, l’hanno protetta, perché la nostra è una natura che ha una forte vocazione relazionale.
Certo, a marzo 2020 abbiamo fatto anche noi il primo lockdown chiusi in casa. Ma appena possibile abbiamo riaperto, siamo usciti subito e non siamo più rientrati in casa. Ora tutti i giorni siamo in teatro e la nostra regola è che i portoni del teatro devono essere sempre aperti.
Il progetto di “Favole al citofono” inizialmente era stato pensato come “regalo” di Natale.
Assistere a una delle vostre favole ha lasciato l’impressione di essere trasportati in una dimensione magica, in un altrove e, con sincero piacere, vediamo che Favole al citofono continua.
In effetti, non abbiamo mai interrotto Favole al citofono: abbiamo avuto così tante richieste che, fin dove è stato possibile, siamo arrivati anche al di là del nostro quartiere, nonostante l’idea iniziale fosse quella di restare all’interno della “zona turchina”.
Ma quello che fa veramente bene al cuore è leggere i commenti e i messaggi di ringraziamento: noi non chiediamo nulla (se non quando non c’è un sostegno da parte dell’Amministrazione) quindi la ricompensa sta proprio in quel grazie e in quel contatto ritrovato.
Io direi addirittura mai perso perché noi non ci siamo mai allontanati.
Ci vedo un nesso tra le favole al citofono e il teatro in piazza (come ad esempio il nostro Moby Dick): quella generosità, negli attori e nei musicisti, è la stessa che si muove quando l’attore si dirige verso il citofono partendo dal teatro in costume, con una cassa nella tasca che emette musica… questo per chi lo fai?
Il pubblico non c’è, il pubblico qui è quel bambino con intorno la sua famiglia che ci aspetta a casa, vicino al citofono. Ma quel percorso in costume dal teatro fino alla casa lo facciamo per noi, forse anche per gli dei, ma soprattutto perché vogliamo tornare in piazza colmi di quella poesia.
In fin dei conti la poesia non è quella che dai ma quella che tu ricevi dal tuo lavoro: fai un lavoro che ami, che non è solo un mestiere ma è anche vita e che ti regala poesia. Questa è la sua forza. La poesia che mi regala il pubblico quando sono in una piazza con il mio Moby Dick, mentre ascolta e guarda immobile, è la stessa che ricevo per questa installazione.
Le persone vengono in teatro a portare dolci o magari del limoncello per ringraziarci, questo è un atto poetico che noi riceviamo. Bisogna tenere alto il muro contro la paura perché altrimenti rischiamo tutti di esserne colpiti. E l’unico modo per combatterla è riuscire a tenere la paura fuori, distante da noi.
Credo che uno degli aspetti del Covid-19 sia stato proprio quello di rimettere in luce la ricchezza e la bellezza di queste relazioni attraverso la loro assenza e che questa battuta di arresto sia stata necessaria a rigenerare il rapporto tra teatro e la sua comunità, proprio come sta facendo il Teatro dei Venti con il suo quartiere e la città.
Il rischio di questa pandemia è la sopravvivenza stessa. Questa era anche la mia unica preoccupazione, non arrivare a vedere il dopo oltre la montagna. Oltre a ciò, sono convinto che dentro questo dramma ci sia un elemento positivo ossia ritrovarsi nelle piccole cose, nei piccoli gesti, nelle relazioni anche quelle improvvise, momentanee, ritrovarsi in un buongiorno e basta.
Questo non vuol dire che gli incontri in piazza, quelli per così dire numerosi, non siano belli, ma c’è del bello e prezioso anche nel piccolo. Quindi sono convinto che usciremo da questa situazione.
Non tutti, ovviamente: chi era marcio sin dall’inizio resta tale, però chi ha prestato attenzione a questo processo e non ha gettato solo rabbia, rancore, ira ma ha analizzato la questione, è riuscito a tirarne fuori delle soluzioni, delle proposte.
Noi abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo pensato a delle proposte. Ci siamo detti, “Ok, che facciamo?”. Ci siamo interrogati su quale fosse il nostro lavoro. Abbiamo riconosciuto che sì, in prima linea vi è chi opera nella sanità, chi opera in questa emergenza… ma noi? Noi dove ci poniamo? Ad aspettare oppure abbiamo anche noi un ruolo in tutto questo?
Certo che anche noi abbiamo un ruolo, ci siamo detti. Piccolo marginale, ma abbiamo un ruolo. E quindi mettiamoci al lavoro. Finanziamenti zero, fa lo stesso, ma era necessario rimetterci in movimento perché comunque crepiamo lo stesso, anche da fermi.
Quindi siamo ripartiti, adoperando ovviamente tutte le misure di sicurezza (noi facciamo due tamponi al mese a nostre spese) ma abbiamo voluto restare aperti. Dovevamo adoperarci per gli altri perché il nostro ruolo è proprio questo: metterci a disposizione degli altri e vedere se il teatro può riacquisire senso. Quindi, sono convinto che questa situazione può lasciarci qualcosa di positivo a patto che si sopravviva. Che è la questione principale.
Il termine sopravvivenza è assolutamente azzeccato perché il teatro non è un hobby o un passatempo: è un lavoro a tutti gli effetti.
Noi siamo dodici dipendenti a tempo indeterminato più altre persone che lavorano con noi su progetti specifici (spettacoli, produzioni nelle carceri, ecc). Diamo lavoro a una cinquantina di persone, la nostra è un’azienda a tutti gli effetti.
Il nostro non è un prodotto tangibile, non produciamo mattonelle, però quello che facciamo non è invisibile: è sufficiente farsi un giro nel nostro quartiere per osservare che quello che facciamo è assolutamente tangibile.
Osservando quello che il teatro e le sue compagnie hanno prodotto come reazione in questi mesi (per fare alcuni esempi qui a Modena, Drama Teatro con il progetto La Vostra voce, Peso Specifico con Teatro Express, Emilia Romagna Teatro con ERTonAIR, la compagnia STED con MAB.059), quando si tornerà alla, per così dire normalità, cosa pensi che potrà essere il teatro?
Bellissima domanda. Io posso dire quello che non voglio dal teatro dopo tutto questo.
Non vorrei una valutazione dell’efficacia del teatro sulla base dello sbigliettamento, degli applausi, o sul bello o brutto. Vorrei abolire queste parole, il valutare uno spettacolo sul fatto che faccia o meno tanti spettatori, mi piacerebbe che venisse superata una valutazione che risale ai primi del Novecento. Basta, non se ne può più.
Non può più essere questo perché la pratica teatrale è cambiata: non è più unicamente ospitare spettatori dentro un luogo fisico. Certo, la pratica teatrale è anche questo ma che fa però parte di un sistema di azioni, un sistema di pratiche complesse, che vanno nella direzione della formazione, nel rapporto con le comunità, nel rapporto con i luoghi marginali della società, nell’istruzione, nel rapporto con le scuole.
Il teatro è diventato negli anni, non solo con la pandemia, un sistema talmente complesso che non può più essere valutato semplicemente da quanti biglietti ha staccato. Non è pensabile tornare a questo tipo di valutazione e a quel tipo di pratica che è conseguenza di questa valutazione. Il linguaggio ministeriale di valutazione, e per ministeriale intendo critici, amministratori locali e regionali e anche il Ministero stesso, obbliga l’artista a ragionare in quel modo.
L’artista invece deve essere rivoluzionario, anarchico, deve ribellarsi per natura.
E quindi io mi ribello a tutto questo perché faccio un altro lavoro che non può essere assolutamente valutato in base a quei criteri. Se per dare un giudizio sul mio lavoro mi chiedessero: “Stefano, quanti detenuti hai? Quanti in carcere lavorano con te?”, sarei in difficoltà a rispondere: è una domanda complessa perché non posso fornire un numero.
Faccio un esempio: posso dire che con me lavorano venti detenuti, che questi a loro volta vivono in cella con tre persone. Ognuno di questi detenuti è a sua volta in contatto con un agente di polizia che lavora in una determinata sezione che a sua volta è in contatto con altri agenti e così via. Per dare una risposta, quindi, io dovrei fare un’analisi: il mio lavoro in quella sezione del carcere genera effetti positivi su una miriade di persone che non è soltanto da riportare a chi partecipa, questo perché chi partecipa genera a sua volta un effetto positivo che si espande come un effetto domino.
In conclusione, l’effetto della presenza del teatro all’interno di un determinato contesto in cui opera non lo si può contare con il numero dei partecipanti. Il teatro è diventato un sistema complesso e per analizzarlo bisogna acquisire uno sguardo fine.
Quindi io mi aspetto questo: che venga posata sul teatro un’intelligenza strutturale e che si ponga una maggiore cura nel valutarne l’efficacia. Chissà. Vedremo. Non so se andrà davvero così ma ci spero.
Oggettivamente, questa sospensione ha mostrato che il teatro è, può e deve essere qualcosa di diverso.
Dopo questa frattura, dopo quello che ha vissuto il teatro non può tornare ai soliti schemi, deve necessariamente essere anche altro.
Sì, deve essere anche altro. Riprendiamoci il teatro nelle piazze, nei borghi, nei condomini.
Conosco alcuni attori, anche molto bravi che, da quando hanno chiuso i teatri sono rimasti a casa, immobili, ad aspettare che arrivi un ingaggio.
L’artista deve essere ribellione e non catena di montaggio, non solo un replicante. Deve essere qualcosa che crea.
Esatto, è creare per te, perché essendo artista hai la necessità di metterti in creazione, ma è anche un’esigenza politica: proprio in qualità di artista, mi sento in dovere di fare qualche cosa per gli altri.