Qualche settimana fa il Drama Teatro ha ospitato Succede di Gabriella Salvaterra: un percorso sensoriale dentro la violenza sulle donne.
Il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855 mila) da partner attuale. La maggior parte delle donne che avevano un partner violento in passato lo hanno lasciato proprio a causa della violenza subita (68,6%). Per il 41,7% è stata la causa principale per interrompere la relazione, mentre per il 26,8% è stato un elemento importante della decisione. Il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini a cui non erano legate: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. In particolare, il 6,3% da conoscenti, il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro.
Questa è la violenza sulle donne in numeri (fonte: sito Istat).
Ciò che i numeri non possono raccontare è tutto quello che è nascosto dietro ad essi. Non possono raccontare delle vite che vengono travolte o che vengono recise da questo fenomeno. Non mostrano i sogni di queste donne, quelle che erano le loro aspirazioni. Non possono raccontare neppure l’angoscia, il senso di sconfitta, la morte della speranza.
Vi è un universo oscuro dentro la violenza che si propaga come un tumore soffocante ponendo la vittima al centro della spirale ma che finisce inesorabilmente per trascinare con sé famigliari e amici. Anche la società viene risucchiata o, almeno, quella parte che si interroga su come prevenire piuttosto che “curare”.
Lo scorso maggio, al Drama Teatro di Modena, è stato presentato il progetto Succede, un’installazione sensoriale “abitata” di Gabriella Salvaterra, SST Sense Specific Theatre: non si tratta solo di una rappresentazione della violenza ma, appena varcata la soglia d’ingresso, ci si ritrova all’interno del labirinto oscuro che è la violenza stessa.
Il corridoio, infatti, è stretto e buio, nessuna luce può guidare i tuoi passi. E succede che ti affidi a quella voce all’ingresso, ti ci aggrappi: la maschera all’ingresso ti dice “svolta subito a sinistra e poi vai dritto”. E tu lo fai, obbedisci.
Lo spettatore (uno per volta può attraversare questo percorso) si ritrova in questo modo già in una posizione di sottomissione e subalternità. Con il cuore pesante, perché in fin dei conti a nessuno piace non vedere, il tuo cammino comincia.
Guardando da un altro punto di vista, questo è un meccanismo che tutti nella vita abbiamo sperimentato almeno una volta con l’amore: è una strada sconosciuta dove, al buio, ci si incammina senza vedere nulla della strada sotto di noi e affidandoci. Quando i nostri occhi si abituano finalmente all’oscurità, riusciamo a scorgere una debole luce di candela: a lei ci vogliamo aggrappare e verso di lei quindi ci dirigiamo.
Ci appare la prima figura femminile di questo lavoro: una donna, sola, seduta a un tavolino con una macchina per tirare la pasta e delle carte bianche. Sembra una cartomante. Ci racconta come a volte succede che alcuni pesci, che nuotano ignari nella loro acqua, finiscano per abboccare. Ci mostra una delle carte che stava mescolando: non è un tarocco, è un ritratto di una donna. Il suo, non è però un destino dolce: l’attrice posiziona l’immagine sulla macchinetta per la pasta e comincia a girare la manovella, riducendo quel viso a striscioline di carta. Con una lentezza pesante, prende questi frammenti che una volta possedevano la dignità di una vita e li immerge in un barattolo pieno di acqua.
È ora di proseguire la nostra caduta, la cartomante ce lo fa intuire con un gesto, introducendoci in un’altra sala, più spaziosa della precedente: sempre in penombra e piena di mensole, su ognuna di essa è posto un vasetto con acqua e ricordi a striscioline di carta di altre vite di donne. Si scopre che si può desiderare di restare in questo limbo per molto tempo, di voler rubare tutti questi barattoli e liberare il loro contenuto nel mare aperto. Ma si deve procedere.
Lo spazio successivo sembra essere uno strano labirinto. O meglio si tratta di una spirale di colore bianco, fatto di tante sottovesti femminili cucite una all’altra in una sorta di abbraccio da cui è impossibile liberarsi. Non possiamo che andare avanti, proseguire in questo turbine che diventa sempre più stretto e soffocante. Al centro di questo occhio del ciclone, c’è una seconda figura femminile: seduta su di una scrivania, ha davanti a sé un paio di forbici. Si racconta indirettamente, giustificando quanto ha subìto dal suo compagno.
Perché in fondo quello che a volte succede è giusto, è sempre la donna che se l’è cercata, perché il lui di turno lo fa solo per il nostro bene. O perché era stanco e la colpa è tua che non hai saputo capire. Le parole vengono scandite da un gesto, ripetitivo e meccanico: si taglia i capelli, centimetro dopo centimetro. I capelli, simbolo della propria femminilità, devono essere recisi. È la punizione per essere troppo belle o indipendenti.
La donna si ferma, ci guarda dritto negli occhi e ci porge le forbici. Nostro malgrado, siamo costretti a partecipare a questo rito. Non siamo oggi forse anche noi un tutt’uno con la scatola della violenza ove ci troviamo in questo momento?
Il percorso, sempre più soffocante, non prevede pause o un ritorno indietro, possiamo (e dobbiamo) andare solo avanti, calpestando sotto di noi sottovesti imbottite che danno l’idea di camminare su tantissimi corpi femminili privi di vita. Incrociamo foto, oggetti di vita quotidiana, sabbia, tantissima sabbia, come una clessidra che inesorabilmente scandisce il tempo che resta da qui alla fine (di uno spettacolo oppure di una vita?).
La terza donna che incrociamo è seduta su una sedia, circondata da scarpe con i tacchi alti: sono scarpe di ogni tipo, tutte bellissime e molto femminili. Ognuna è davvero troppo alta. La donna davanti a noi è scalza: con un gesto della mano ci fa capire che il nostro compito è quello di sceglierle un paio di scarpe e fargliele indossare. La mia scelta ricade su un paio di decolletè rosse. Mentre la aiutiamo a indossarle, ci chiede se sappiamo perché agli uomini piacciano così tanto le donne con i tacchi alti. Onestamente, non so cosa rispondere.
“Perché con queste scarpe non possiamo correre veloci” è la risposta appena sussurrata dell’attrice.
Questo viaggio si chiude con una sedia rovesciata, la fine della storia della donna e della sua violenza. Che cosa rappresenta quella sedia? Che significato assume per lo spettatore che ha, come me oggi, abitato questo incubo? Un suicidio, tentativo estremo di rivendicare la libertà sul proprio corpo e sulla propria vita? Oppure, essendo essa stessa un oggetto così strettamente legato alla casa, vuole evocare un definitivo atto violento dall’epilogo drammatico?
Quando finalmente riesco a uscire da questo labirinto, mi accoglie la luce di un giorno che sta volgendo al termine. Mi rendo conto che ora non sono abituata alla luce, che anzi mi infastidisce. E porto con me un cuore pesante assieme al senso di impotenza. Forse però anche un augurio: che quella sedia sia stata rovesciata non per la morte della donna, ma in conseguenza ad gesto finale di ribellione contro il lui violento e come simbolo di ritorno ad una vita libera.
Succede
Un’installazione sensoriale abitata
di Gabriella Salvaterra – SST Sense Specific Theatre
con Arianna Marano, Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra
produzione: Artisti Drama
paesaggio olfattivo: Giovanna Pezzullo
musiche: Pancho Garcia
costumi: Giuliana Pavarotti
direzione tecnica: Davide Sorlini
organizzazione: Claudio Ponzana
Per approfondire il tema della violenza sulle donne:
“Chi sono le vittime di violenza”
“Dati e grafici sulla violenza di genere in Italia e nel mondo”