Per raccontare la quarta edizione di Concentrico Festival ho scelto “R.OSA, 10 esercizi per nuovi virtuosismi”. In scena Claudia Marsicano, vincitrice con questa performance del premio Ubu 2017 come miglior attrice under 35, guidata dalla regia e coreografia di Silvia Gribaudi. Co-produzione di La Corte Ospitale e Associazione Culturale Zebra.
Perché?
Concentrico va in scena dal 13 al 17 giugno, a Carpi, che per quei giorni si trasforma nel palcoscenico all’aperto più grande d’Italia.
40 spettacoli
17 compagnie
5 prime nazionali
1 spettacolo prodotto da Concentrico Festival
Spettacoli di piazza
Prosa
Danza urbana
Circo
Teatro ragazzi
Un crocevia di arti, pensieri ed espressioni messe in atto a ribadire che la cultura è un’opera di edificazione che non costruisce muri, ma li abbatte.
Cosa scegliere?
Avete mai acquistato un libro in base alla copertina? Io si, e con lo stesso spirito ho optato per la visione di R.OSA., innamorandomi dell’immagine della locandina, a cura di Laila Pozzo.
Così ho parlato con Concentrico, che ha parlato con la Corte Ospitale, che ha parlato con Silvia Gribaudi, che ha parlato con me. Tutto d’un fiato.
Ciao Silvia. Mi racconti chi, o cos’è, R.OSA?
R.OSA non è una persona ma una performance. È una tappa del percorso poetico avviato nel 2009 con “A corpo libero”. Una porta aperta verso un nuovo modo di vedere e trattare il corpo femminile rispetto alla danza. È in atto una rivoluzione del corpo, che si ribella alla gravità e mostra la sua levità.
Sono esercizi in cui il virtuosismo prende vita sotto forma della relazione umana e dell’empatia che si crea tra il performer e il pubblico. Attese e sorprese continue tra quello che ci aspettiamo di vedere in scena e quello che accade realmente. Sono dieci esercizi che osano altrettante visioni e conducono il pubblico in una dimensione di coinvolgimento e riflessione.
Claudia Marsicano entra in scena, immobile. Sembra arrivata per impartirci lezioni di aerobica. Body azzurro acceso e il rosa della carne. La platea si pone in ascolto rapito dell’interpretazione di Jolene di Dolly Parton, che si trasforma presto in un gioco di accelerazioni e distorsioni.
Lo sfondo è svuotato di ogni colore, il fatto scenico catalizzatore è Claudia.
Tu, che nasci come danzatrice, ti sei mai immaginata sul palco?
I dieci esercizi sono nati come idea e concept nei miei pensieri, ed ero in cerca del performer su cui poterli ricucire. Nel 2014, durante un laboratorio, ho incontrato Claudia e mi è sembrata da subito l’interprete più giusta. A dire la verità, durante una residenza a Bassano del Grappa sono entrata in scena ma ho immediatamente capito che potevo stare fuori e, lavorando, ho scoperto che Claudia era talmente brava che non c’era assolutamente bisogno della mia presenza.
La velocità con la quale perplessità e pregiudizio sanno trasformarsi in adesione è impressionante. Non facciamo in tempo ad accorgerci di quella bellissima voce che ci ritroviamo scatenati con le braccia al cielo nella dance floor di un’improbabile ballo di gruppo.
Dove nasce il desiderio di lavorare con un corpo che tu stessa definisci “boteriano”?
Nasce dalla necessità di non dover mettere questi nomi, perché purtroppo siamo in una società dove bisogna usarli. Da un desiderio grandissimo di speranza in un’umanità che smetta di mettere dei codici addosso ai corpi degli altri. Da danzatrice sono molto arrabbiata rispetto all’utilizzo di cliché, anche in R.OSA, purtroppo, se ne crea uno, perché spesso chi ne parla deve utilizzare aggettivi per specificare le forme della performer. Credo sia giunto il momento in cui la società può anche evitare di assegnarli. Mi piace il parallelismo con Botero perché se vai a vedere un quadro di Botero vai a vedere dei volumi, che sono interessanti da un punto di vista artistico. Spero si possa parlare soltanto di virtuosismi, di capacità e di talento. Siamo in un’epoca storica dove ognuno di noi dovrebbe veramente impegnarsi a tirar fuori il proprio talento, e Claudia è un esempio in questo.
La condivisione si scioglie nei riti dello stretching, in un esercizio uniforme di inspirazione ed espirazione. Il canale della comunicazione è stato aperto e rimane intatto in una dichiarata esortazione ad osare.
Qual è il ruolo del corpo in una collettività che spesso respinge il concetto di “non canonico”?
Il corpo è quello che tutti noi abitiamo, sappiamo che nel tempo subisce tante trasformazioni e tutti noi abbiamo paura di lasciarlo. C’è chiaramente un desiderio di tenerlo fermo, statico, congelarlo in un’immagine precisa. Invece il corpo è fantastico, perché vive di infinite trasformazioni, è la manifestazione della sopravvivenza dell’essere umano nella sua interiorità a prescindere da come è fatto. Trovo assurdo esserne molto attaccati. Capisco che bisogna rispettare la nostra fisicità sia come artisti che come persone, ma manca un’educazione al corpo, per farcelo vivere come quello che è cioè come qualcosa in continua transizione, semplicemente un mezzo per poterci esprimere. Siamo purtroppo molto lontani da questa libertà di esistere a prescindere dagli abiti che indossiamo.
Esistono dei canoni per definirlo, cosa ne pensi?
Esistono ovviamente dei canoni, che cambiano nelle epoche storiche. Da danzatrice che ha subito diversi cambiamenti del proprio corpo ho dovuto immaginare e costruire un nuovo modo di stare nell’ambiente del lavoro con la fisicità che era cambiata. Hanno senso di esistere, perché abbiamo comunque bisogno di codici. Ed il fatto che esistano è una cosa molto bella, così io almeno posso destrutturarli. Solo così riesco a vedere il corpo come delle forme che diventano un dipinto, e quel dipinto sprigiona bellezza proprio nell’essere variopinto. Quindi sì, esistono dei canoni, l’importante è che non diventino elitari e discriminanti rispetto alla società. Dal momento che ci sono discriminazioni vuol dire che forse stiamo perdendo la chiarezza di un essere umano che si completa e si relaziona agli altri nelle proprie forme.
Tra una pirouette e l’altra, il corpo si muove sulla sillabazione delle parole italiane preferite «rombo», «opuscolo» e «forchetta»; giochi verbali intrecciati ad evoluzioni mimiche.
Cosa ti ha portato a raccontare in chiave ironica o comica?
Fa parte della mia natura. Sono così. L’ho scoperto verso i trent’anni, quando dalla danza sono passata al cabaret e ho unito la coreografia e la danza con la ricerca dello humor. Non è che lo faccio, vorrei raccontare in altri modi, riuscire a entrare anche in altri territori dell’espressione, però quando lavoro con i corpi mi viene fortissimo tirare fuori dal performer la parte più ironica, la parte comica, la capacità di stare davanti al pubblico in maniera informale. È un piacere che mi nasce spontaneo, non è strategico.
Pratichi il buddismo. Come si traduce questo nei tuoi lavori?
È solo grazie alla pratica buddista che riesco a raccontare con più capacità quello che ho voglia di raccontare. Il buddismo che pratico permette di tirare fuori il massimo potenziale, per cui ovviamente la mia poetica è legata all’osare, all’imprimere per quanto io riesca nella società un’azione che risveglia. L’ideogramma di una parte del mantra che ripeto tutti i giorni nella pratica significa anche rivitalizzare. Quindi nei miei lavori mi domando sempre in che modo posso rivitalizzare un ambiente teatrale, e anche in R.OSA infatti ci sono delle parti di animazione. Dopo aver fatto anche villaggio turistico oggi mi sento in un qualche modo un’animatrice contemporanea.
Cosa ti aspetti dal pubblico e cosa speri che le persone portino con sé?
La partitura permette allo spettatore, se vuole, di sciogliere le emozioni e buttare via le tensioni che vive guardando la performance, per questo si parla di esercizi. I momenti di interazione con il pubblico, sono momenti in cui più che intrattenere dico al pubblico di scatenarsi, sfogarsi e abbandonare i pensieri.
Ad alcuni può dare anche fastidio il tipo di comunicazione che utilizzo, perché sicuramente è molto diretta e in certi momenti anche un po’ aggressiva. In questo modo però sono coerente con me stessa e allo stesso tempo consapevole che lo stile a qualcuno possa dare fastidio e altri invece possano sentirsi esaltati.
Il mio obiettivo è che il pubblico possa abbandonare i pensieri per accogliere qualcosa che non conosce, di sé e degli altri. Mettere dei semi di riflessione su aspettative che abbiamo socialmente su come il corpo debba essere o non essere per poter esprimere bellezza.
Grazie a Concentrico che mi ha permesso di approfondirla e viverla durante i giorni di Festival.
Grazie per l’ospitalità.
Grazie a Silvia Gribaudi per la generosità nel raccontarsi e l’ispirazione.