“Famiglia” è un termine che solitamente evoca sensazioni confortanti. È un abbraccio. È protezione. È casa. Per lo meno, questo secondo l’immaginario collettivo. La famiglia è un costrutto e un preconcetto insito nella nostra società, probabilmente installato in noi alla nascita. Ma, volendo analizzare la sua struttura, quali sono gli elementi oggettivi che la identificano in quanto tale? Le parti costitutive di una famiglia possono esaurirsi in un mero discorso biologico o legale? Chi decide chi fa parte o meno di una famiglia? Che cos’è davvero una famiglia? Ruota intorno a questa domanda e a tutte le conseguenze che essa porta con sé “Per la ragione degli altri” della compagnia Alchemico Tre, spettacolo andato in scena il 21 novembre al Teatro dei Segni per il terzo appuntamento di Trasparenze Stagione.
Il punto di partenza è Pirandello e una sua commedia scritta nel 1895: la riscrittura di Michele Di Giacomo e Riccardo Spagnuolo proiettano questo testo nelle recenti discussioni politiche e sociali sulla famiglia tradizionale (e non) ed intorno a tutti i diritti ad essa derivanti. Ma può un testo temporalmente così lontano parlare alla nostra società? Evidentemente sì ma ponendo ad esso un sottotitolo: “Un tradimento di Pirandello”. Il primo tradimento, abbastanza visibile, è nella lingua: nella versione di Alchemico Tre il linguaggio è notevolmente svecchiato e alleggerito rendendolo quindi vicino ai nostri tempi. Il secondo è proprio nel titolo, nel “per”, un prefisso tutt’altro che irrilevante: esso può indicare due azioni distinte. In positivo, nel senso che la storia “va verso gli altri”, oppure in negativo, ossia “tutto succede perché sono altri a decidere”.
La storia ruota attorno ad un triangolo. Un banale e scontato triangolo: Moglie, Marito e Amante (interpretati rispettivamente da Giorgia Coco, Michele Di Giacomo e una commovente Federica Fabiani). Lui, il Marito, si ritrova padre di una bambina avuta dall’amante. Una donna, l’Amante, che però lui non ama più. Un Marito che si riscopre a desiderare di essere ancora tale, per lo meno per godere di tutti i vantaggi materiali che la Moglie benestante potrebbe dargli, ma che non può più esserlo totalmente perché il suo dovere di padre è più forte di qualsiasi altra cosa. Ed è così che noi del pubblico guardiamo, impotenti, quest’uomo dibattersi ingabbiato in due ruoli che non può (e non vuole) vivere davvero fino in fondo. E avrebbe continuando in questa recita se non fosse intervenuto il Suocero a scuotere le fondamenta di un castello di carta. Costretto a prendere posizione, il Marito comprende che non ha una reale scelta: esiste un dovere biologico, una figlia, e che il dovere viene prima di qualsiasi cosa.
I personaggi in scena sono nudi, incatenati: possiedono solo un ruolo, non hanno altro, perché sono stati spogliati del proprio nome e della propria identità. Agli occhi degli Altri, in fin dei conti, non importa chi siano le persone in scena, non vogliono vedere chi abita quel costume. Ma chi sono poi questi Altri? La risposta di Alchemico è spiazzante: gli Altri a cui si rivolgono i tre attori in scena siamo noi del pubblico. È a noi che, attraverso la rappresentazione ed i video sulle manifestazioni pro-famiglia tradizionale, ci si rivolge. Il pubblico si trova a interpretare la parte di una società che sterilmente assiste alle vicende altrui scegliendo di stare dalla parte del pregiudizio. Viene mostrata una società che impone dei canoni e che decide che questi vengano obbligatoriamente seguiti come è giusto fare. Poco importa se quel giusto sia doloroso o meno. Poco importa se quel giusto sia quanto realmente vogliono i protagonisti della scena (o della vita, allargando il concetto). Le cose vanno fatte secondo un rigido codice morale.
La scena della rappresentazione è spoglia come lo sono le identità dei personaggi: unici elementi a scandire lo spazio e il trascorrere del tempo sono dei totem-televisioni. Credo che questo sia un eccellete specchio della nostra società, che si muove e si esprime solo attraverso i media e le immagini a cui siamo bombardati quotidianamente. Ogni elemento è bilanciato e perfetto anche grazie alla bravura degli attori: le donne, attraverso l’utilizzo di un microfono, alterano la propria voce impersonificando il suocero e il direttore del giornale “La provincia”, dove Marito lavora per mantenere la sua doppia vita.
A ben vedere, in conclusione, i veri protagonisti di questo “tradimento” di Alchemico Tre sono gli Altri. Che poi, seguendo fedelmente la scelta registica di Michele Di Giacomo, siamo proprio noi: viene mostrata una realtà fredda e cinica in cui ciò che conta non sono gli affetti ma la stabilità materiale. Scegliendo di far muovere solo i protagonisti di questo triangolo, il dolore e l’immobilità dei tre viene mostrata in tutta la sua crudeltà perché assistiamo muti al gesto di una madre con pochi mezzi che, per il bene di sua figlia, è costretta a rinunciare al suo affetto. E quello che è più sconvolgente, a mio avviso, è constatare che, in fin dei conti, tutti ci scopriamo rincuorati ad assistere al finale. Quanti di noi vorrebbero sostituirsi a quella bambina per assicurare a sé stessi un futuro appagante? Spettacoli come questo sono in grado di mettere in luce tutta la contraddizione della contemporaneità e della società: viviamo un tempo in cui si cerca di difendere un preconcetto ma non le persone che lo compongono. A noi “Altri” non viene realmente data parola: siamo resi muti perché in ogni caso non abbiamo scelta. Sarebbe stata necessaria una forte presa di posizione che nessuno del pubblico si è sentito di fare. Cosa sarebbe successo se alla domanda che ci è stata posta dai protagonisti in scena su quale sarebbe stata la scelta migliore per la bambina, noi avessimo scelto la madre naturale?
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