Intervista a Daniele Fedeli, attore protagonista di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, realizzata da Simone Corso e Salvatore Pinto, allievi del corso Perfezionamento Dramaturg Internazionale, nell’ambito dell’operazione “Per un sistema internazionale: Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro” Rif. PA 2018-9877/RER, approvata con DGR 1208/2018 del 30/07/2018 e cofinanziata da Fondo Sociale Europeo, (Progetto 3).
Lo spettacolo con la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani andrà in scena al Teatro Storchi dal 12 al 15 marzo.
Daniele Fedeli interpreta Christopher, un ragazzo autistico appassionato lettore di Sherlock Holmes che decide di investigare sulla morte di Wellington, il cane della sua vicina. In quest’indagine svelerà molti misteri, anche riguardo a sé stesso e alla sua storia.
Visto il grande successo di pubblico e critica che la sua interpretazione ha riscontrato, gli abbiamo chiesto come sia arrivato a costruire questo personaggio. Le sue parole ci hanno raccontato di un lavoro preciso, pignolo, attento al minimo dettaglio e nella sua descrizione siamo venuti a conoscenza di quella che è, per Daniele, la visione del lavoro dell’attore.
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – afferma Daniele Fedeli – è stata un’esperienza molto importante, per me, una prima produzione “grande”, per un teatro come quello dell’Elfo, soprattutto perché capitata nel momento del mio trasferimento a Milano. Avevo conosciuto Ferdinando (Bruni, nda) qualche anno prima quando era in giuria al premio Hystrio e ricevere la sua telefonata è stato importante. In fase di costruzione del lavoro Ferdinando ed Elio (Bruni e De Capitani, registi dello spettacolo, nda) mi hanno lasciato molta libertà di proposta, mi sono sentito molto libero di ricercare un modo mio, personalissimo, di affrontare questa figura, questo lavoro, non mi hanno mai imposto nulla, a parte darmi delle indicazioni registiche.
Certo che la prima caratteristica di Christopher che salta agli occhi – anche del lettore del romanzo – è, senza dubbio, la sua malattia. Tu come ti sei rapportato a questo?
Ho studiato molto, mi sono informato, però mi ha aiutato molto, per esempio, non vedere video, non ascoltare ragazzi con la sindrome di Asperger. Tutte le indicazioni su come dovevo fare, cosa dovevo fare, quando dovevo fare erano già nel testo, non ho faticato. Ho seguito semplicemente le indicazioni che il drammaturgo (Simon Stephens, nda) ha dato e questo mi ha portato, con tutto l’immaginario che io posso avere, ad affrontarlo in un modo unico e personale. Io ho semplicemente eseguito quello che mi era assegnato come partitura drammaturgica.
Alla struttura drammaturgica si sono poi aggiunti l’immaginario personale e la lettura del romanzo di M. Haddon per dare vita ad una creazione a tutto tondo.
Shakespeare, nel secondo atto di Amleto, mentre guarda il primo attore provare alla sua corte, colpito dalla sua capacità di interpretazione del testo si chiede: «Ma cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba da farlo tanto piangere per lei?», ecco: cos’è Christoper per te o cosa sei tu per lui?
Su questo argomento devo fare una precisazione; di base non posso rispondere a questa domanda perché ho una concezione, mia personalissima, di quello che è o non è un personaggio, o una figura.
Sinceramente non mi interesso di Christopher in quanto personaggio, per me non è quello che conta. In ogni cosa che faccio, prima di tutto, come attore studio e suono una partitura scenica che sia di corpo e di voce. Poi tutto il resto, l’emotività o l’immaginario, arrivano, ed è quello che fa dire agli altri, assieme alla storia e al nome: “ecco, è quello il personaggio”.
Però io, sinceramente, non ho mai pensato a costruire un personaggio, io mi sono concentrato solamente sulla partitura testuale, fisica e vocale e ho seguito solo quella, come se fossi un musicista, perché è così che concepisco il lavoro scenico, per quanto mi riguarda.
Da cosa deriva questo tuo modo di creare?
Ho una formazione molto personale, non ho seguito accademie, quello che so viene da un mio interesse personale che ho assecondato sin da quando avevo dodici, tredici anni, quando ho iniziato a interessarmi al teatro. Devo anche ringraziare mio fratello che ha frequentato la Paolo Grassi e in quegli anni, e anche nei successivi a quelli, abbiamo fatto teatro insieme e per me lui è stato un punto di riferimento; poi ho seguito una serie di laboratori, un ottimo modo per formarsi dal punto di vista performativo.
E l’incontro con grandi maestri, lo studio del loro lavoro lo hanno sicuramente influenzato, ci sono state esperienze che hanno fatto ricalibrare il suo modo di pensare alla scena e al modo di viverla, tra gli altri Leo De Berardinis, Paolo Poli, Fassbinder.
Sono arrivato a concepire il mio lavoro personale, scenico in questo modo, anche in rapporto al lavoro dei miei colleghi, nonché amici che spesso vado a vedere a teatro. Non mi interessano i classici discorsi sui personaggi: pensare a un personaggio ti porta a “usare il pensiero”, la psicologia e questo tronca o può troncare quella che può essere la tua forza e precisione fisica e vocale in scena. Nel senso: non agisci più col corpo e con la voce, ma agisci con la mente, quindi non agisci.
Costruire, dunque, una partitura vocale e fisica fa sì che tu non abbia preoccupazioni e quindi la connessione mente corpo è immediata. E, se ti lasci guidare dal corpo (ciò che il corpo fa abitualmente), il tuo cervello è in movimento coerente con il corpo stesso e quindi pensi quello che il corpo ti porta a pensare.
E questo, in rapporto al lavoro degli altri in scena assieme a te, come si inserisce?
Io sono molto pignolo e preciso: se si è stabilita una partitura deve essere quella. È come un musicista che suona Mozart. Se sulla partitura c’è scritta una nota il musicista non può, di sua sponte, decidere di suonarne un’altra. E questa partitura io la traduco nei gesti e nella voce e la rispetto, o per lo meno, cerco di rispettarla alla virgola. Ed è il contrario di quello che tante volte sostengono gli attori: “stasera cambio perché mi sento così”, “è bello che a volte le cose succedono così, al momento”. Io non sono d’accordo.
Ne va anche del rispetto per il lavoro altrui, anche perché una giustificazione del genere avviene sempre a posteriori senza aver messo al corrente i propri colleghi sulla scena delle proprie intenzioni.
Certo, un’obiezione che si può fare a questo pensiero è: “stai riproducendo una partitura, ma una partitura non vive”. Secondo me non è vero, se la partitura la fai tutti i giorni, tutte le volte necessarie affinché diventa qualcosa a cui non ci devi più pensare, questo mi porterà a stare direttamente nell’azione, come la partitura musicale vive proprio per il fatto che c’è qualche musicista che la suona, tu in quanto attore dai vita a quella partitura perché sei presente a te stesso nel momento in cui la stai eseguendo.
La partitura muore quando diventa ripetizione meccanica ma, in caso contrario è ciò che ti fa stare nel presente in maniera più attenta. E per una forma d’arte, come il teatro, che per sua natura è “live”, questo è fondamentale. È da un po’ di tempo che mi piace pensare al teatro come un concerto live, appunto, piuttosto che ad un posto in cui si vada “per fare una recita”.
E allora non ci resta che aspettare di vederti “live” qui a Modena.