Il 14 ottobre all’Ovestlab di Modena, James Meadow, chitarrista e cantautore modenese, ha presentato il suo album di debutto “A scarecrow sight” insieme a Luca Perciballi.
L’album raccoglie le canzoni dal suono finger-style scritte da James Meadow tra il 2017 e il 2018. I suoi testi prendono spunto direttamente dalle sue esperienze personali, diventando scatti precisi di momenti del passato che diventano canzoni.
La sua musica si fonde con quella innovativa ed eccentrica di Luca Perciballi: questo connubio riesce ad avvolgere e trasportare l’ascoltatore attraverso un viaggio inatteso. Abbiamo incontrato di persona James Meadow e abbiamo avuto il piacere di porgli qualche domanda.
Nella tua biografia si legge:
“James Meadow, alias Davide Falcone, è cantautore e antropologo”. Il suo nome d’arte, celando un riferimento alla nota antropologa Margaret Mead, riflette la sua ricerca di una sintesi tra la forma canzone e la scrittura etnografica”.
Potresti raccontarci questo tuo aspetto biografico?
Penso che antropologia e musica si siano per me progressivamente intrecciate in uno stesso percorso in modo abbastanza spontaneo, del quale la scelta di adottare un nome d’arte è solo il tassello più recente.
Il momento che prendo come riferimento è la fase in cui ho scritto “Holding the future”, a fine estate del 2017, dopo i primi mesi di ricerca sul campo per la tesi magistrale. Oggi riconosco come il brano sia stato la prima e più immediata modalità che ho trovato per restituire alcune delle complesse dinamiche dell’esperienza nella quale mi trovavo immerso. Esso ha infatti anticipato la stesura del testo etnografico vero e proprio, nel quale ho successivamente potuto approfondire, dialogando con una letteratura e le situazioni che la canzone aveva già fotografato.
Pur non essendo stata una scelta calcolata, da quel momento ho cominciato a riconoscere come la scrittura in versi potesse integrare una certa sensibilità antropologica, mettendo a frutto alcuni degli strumenti approfonditi in aula e sul campo in un mio personale percorso artistico.
Osservando a posteriori i brani che ho scritto, vedo infatti il progressivo maturare nei testi di una forma di riflessività tipicamente antropologica: nel collage di situazioni, ricordi e persone che l’album raccoglie, c’è sempre un narratore, un punto di vista dal quale osservo e vengo a mia volta osservato partecipare, reagire, interagire. La sfida, nella scrittura come nella quotidianità, rimane per me quella di avere uno sguardo capace di cogliere la complessità, anche dietro i gesti ordinari e sottintesi.
L’antropologia ha una posizione importante nella tua vita, puoi spiegarci il perché?
Certo, nonostante il mio incontro con la disciplina sia avvenuto tardivamente, solo con il percorso di laurea magistrale, l’antropologia ha avuto un impatto profondo sul dilatare e questionare il mio approccio alla quotidianità, influenzando così in modo decisivo anche alcune importanti scelte di vita.
Un momento formativo rilevante è ovviamente stato la già citata ricerca di campo dalla quale è nata la tesi di laurea, che mi piacerebbe in futuro pubblicare sotto forma di monografia. Inoltre, ho trovato particolarmente stimolante partecipare ad un dibattito sulla rivista italiana Antropologia Pubblica nel 2018 con un articolo scritto a quattro mani con Giulia Consoli e collaborare come tutor nel corso di Antropologia Culturale durante il 2019.
Dopo la laurea in Antropologia e Storia del Mondo Contemporaneo, per quanto abbia deciso di non proseguire un percorso strettamente accademico, continuo a frequentare incontri e conferenze promossi dal circuito dell’antropologia italiana. Il prossimo 5 Dicembre, ad esempio, proporrò insieme a due antropologi e a Luca Perciballi, un workshop sulle improvvisazioni all’interno della conferenza annuale della SIAA (Società di Antropologia Applicata).
Durante il concerto del 14 ottobre sei stato accompagnato dal Maestro Luca Perciballi, noto chitarrista non solo del panorama modenese, ma anche nazionale ed internazionale.
Cosa ha significato il suo incontro nel tuo percorso artistico?
Quando ho conosciuto Luca, nell’autunno del 2016, stavo affrontando da alcuni anni un percorso da autodidatta principalmente impostato sullo studio di Bruce Cockburn e Michael Hedges, due virtuosi chitarristi e cantautori acustici. Avevo così maturato uno stile che univa un rudimentale finger-picking, frutto dell’esercizio sui brani del primo, alla sperimentazione di nuove accordature aperte, scoperte dall’approfondimento del secondo.
L’incontro con Luca è stato però decisivo per raggiungere una certa maturità artistica. I due anni di studio dello strumento sotto la sua guida mi hanno infatti permesso di lavorare sulla pulizia del suono, sulla coerenza strutturale dei brani e su una certa consapevolezza nell’ascolto e nella composizione.
Nel 2019 il percorso è poi maturato nella registrazione in studio dell’album uscito lo scorso 20 Settembre, in cui io e Luca, arrangiatore e produttore del disco, abbiamo cercato di raccogliere l’eredità del folk-rock nord-americano in una forma canzone più contemporanea. La dimensione live in duo, iniziata questa estate, è la continuazione naturale del progetto e, anche se le difficoltà imposte dall’attuale contesto socio-politico sono elevate, speriamo di poterla sperimentare il più possibile nei mesi a venire.
“A scarecrow sight”, l’album che hai presentato durante il concerto, significa letteralmente “Uno sguardo di spaventapasseri”.
Cosa volevi raccontare?
Credo che l’album sia caratterizzato da una tensione verso il cambio di prospettiva, nei testi come nella musica.
Da un lato, come dicevo prima, utilizzo una riflessività tipica di uno sguardo antropologico per raccontare in versi alcune esperienze personali. Dall’altro lato, le implicazioni di una nuova osservazione sono esplorate anche nella struttura musicale dei brani.
Le canzoni sono nate come pezzi acustici, con solo chitarra e voce. Ma durante le sessioni di registrazione con Luca, abbiamo preso una direzione diversa alla ricerca di nuove tessiture sonore, un percorso che stiamo continuando ad esplorare nella dimensione live.
Lo “sguardo di spaventapasseri” del titolo evoca dunque la costante ricerca di un diverso punto di vista, uno scorcio a volte defilato per rileggere sguardi, incontri ed esperienze di vita.
Con i videomaker Francesco Benetti e Matteo Cerfogli lo abbiamo rappresentato nel videoclip del singolo “The Imaginary Bond”: un personaggio ermetico, interpretato alternativamente da diversi attori e attrici, che mi osserva nel mio incedere.
Del tuo album, i pezzi che più mi sono piaciuti sono “If you keep on walking” e “Entangled in love”.
Come sono nati e quali messaggi volevi trasmettere?
“If you keep on walking” è nata come un regalo a una cara amica, qualche giorno prima che partisse per un viaggio “on the road” di diversi mesi in Centro America. Con la sua partenza ho ripercorso i ricordi ancora vividi di un’intensa esperienza che avevo di recente concluso in Canada, alla luce dello spaesamento che il ritorno mi aveva generato.
Disorientamento diverso è invece quello dal quale è scaturita “Entangled in love”. Dopo diversi anni di orgogliosa, movimentata e solitaria ricerca individuale, la prospettiva era improvvisamente mutata. Per la prima volta ascoltavo il mondo fuori muoversi frenetico, mentre io, apparentemente fermo, percorrevo alcuni tortuosi sentieri della mia psiche in una nuova dimensione, “impigliato nell’amore”:
And the world doesn’t stop in his motion goal
if I give a shape to my emotions flow
I could sing I’m entangled in love.
Immagina un Davide Falcone del passato, intento a scrivere la sua prima canzone. Cosa gli diresti oggi?
Spesso, in realtà, pur correndo il rischio di idealizzare e plastificare un’immagine di sé nel passato, mi trovo a fare il processo inverso, attingendo alla curiosità e intraprendenza di un Davide Falcone alle sue prime armi.