Abbiamo incontrato Daniele Francesconi, direttore del festivalfilosofia, per ragionare insieme su conseguenze e potenzialità del particolare momento storico che stiamo vivendo.
Ciao Daniele, puoi raccontarci come sei arrivato al festivalfilosofia e cosa ha significato per te?
Ciao Alessio e grazie. Sono arrivato al festivalfilosofia al termine di un perfezionamento presso la Scuola Alti Studi della Fondazione San Carlo. Erano gli anni in cui quell’istituzione lavorava al progetto della manifestazione e vi ho partecipato fin dalla prima edizione. Il festival è stato, sul piano personale, un contesto nel quale ho potuto costruirmi una professionalità ulteriore rispetto alle abilitazioni alla ricerca fornite dall’Università. Più in generale, è stata l’occasione per lavorare a riflessioni che provino ad avere impatto sull’opinione pubblica.
Siamo in lockdown per il Covid-19. Credi si possa ancora fare cultura e parlarne a livello urbano e locale senza le sue arene e la partecipazione fisica del pubblico?
Siamo nella fase acuta dell’emergenza e nemmeno gli scienziati azzardano previsioni sulla durata, ma sappiamo che ci sarà una fine. La vera questione sarà misurare gli effetti e le ripercussioni, anche sulla vita culturale, una volta usciti dal lockdown. Per fare questo occorrono, credo, nervi saldi e capacità d’immaginazione. La partecipazione del pubblico a mostre, spettacoli, concerti e festival tornerà a essere possibile, non mi pare che nessuno lo metta in dubbio. Tuttavia, proprio perché la condivisione è un bene così importante, e mai come in queste settimane ne siamo stati consapevoli, bisognerà prepararsi alle prossime crisi, perché è certo che ciclicamente ce ne saranno, e compiere un lavoro anche culturale sui fattori che le favoriscono o le aggravano. Stiamo imparando che ci sono relazioni tra le specie animali, fattori ambientali, incidenza della disinformazione, per non dire dislivelli e disparità tra i sistemi sanitari, che contribuiscono a emergenze come questa: sarà responsabilità di tutti non dimenticarlo, e agire di conseguenza, se vorremo continuare a stare insieme liberamente.
Individui rischi nell’intensificarsi dell’uso di internet per conservare e trasmettere cultura locale?
L’unico rischio che individuo è che a questo intensificarsi non corrisponda una maggiore eguaglianza di accesso alla rete: l’Italia, per usare un eufemismo, non brilla né sul piano infrastrutturale, né su quello educativo. Abbiamo un “digital divide” molto significativo, che può solo aggravare le diseguaglianze socioculturali. Bisogna colmarlo.
Detto questo, credo che la rete e la digitalizzazione siano un bene fondamentale per la conservazione e la trasmissione della cultura. Hai usato l’espressione “cultura locale”: ecco, possono essere anche un modo per de-localizzarla. Inoltre, ampliando potenzialmente la platea, possono anche fungere da controllo di qualità: purtroppo capita che l’offerta culturale sia spesso troppo autoreferenziale. Un po’ di concorrenza e una spinta a raggiungere nuovi pubblici può fare bene.
Sul sito del festivalfilosofia sono disponibili le “Lezioni per tempi di crisi”. Spesso capita di avere a disposizione un contenuto senza sentire l’urgenza di fruirne, eppure quando viene trasmesso per esempio in televisione siamo felici di fermarci e guardarlo. Quasi che l’illusione di qualcosa “che avviene in quel momento” ne aumentasse il valore.
Qual è la tua esperienza riguardo la percezione della fruizione condivisa rispetto a quella svolta autonomamente?
Le “Lezioni per tempi di crisi” sono il nostro modestissimo contributo a questa fase. Abbiamo pensato di far ascoltare riflessioni di maestri importanti su alcune delle parole-chiave di questa emergenza: precauzione, biopolitica, fake news, ma anche cura, collaborazione e resistenza alle prove interiori.
Rispetto alla questione della fruizione condivisa o autonoma di cui parli, credo ci siano vari piani. Il primo è generazionale. Le nuove generazioni sono multicanale: certo, sanno che esistono i film delle 21,30 e talvolta li guardano, ma sono ben più abituati di noi a divorare serie o altri materiali video, anche direttamente dal telefonino, in modo del tutto libero e auto-organizzato. Ovviamente, per farlo, occorre proteggersi dagli spoiler, che sia il finale di una serie o il risultato della finale di Champions, e nel nostro mondo questo è sempre più difficile.
Lavorando a un festival culturale, so bene come esista una “chimica della presenza” e della partecipazione, che costituisce un valore aggiunto e che noi non solo incoraggiamo, ma letteralmente allestiamo.
Vorrei però aggiungere una cosa, che mi pare importante specie in questa fase. Fare cultura e fruirne è anche un’esperienza solitaria. Ciò vale esemplarmente per la lettura, la scrittura, ma non solo: anche ascoltare la musica, guardare un film, contemplare un’opera, sono in ultima istanza esperienze individuali. Questo non vuol dire isolamento: leggere un libro significa stare soli con se stessi ma anche fare ingresso in un mondo dell’immaginazione popolato di personaggi, storie, eventi e concetti, ossia il contrario della disconnessione, e non c’è bisogno di postare sempre selfie sui social per avvisare che si sta leggendo un libro. Dobbiamo imparare di nuovo a stare da soli per avere qualcosa di interessante e sensato da dire quando rientriamo in mezzo agli altri.
Quali sono secondo te i concetti chiave utili alla resilienza degli operatori culturali in questo momento?
Qui sarò breve. Sono quelli che valgono per tutti: consapevolezza, perseveranza, lucidità, fiducia nel sapere. Poi occorreranno misure e creatività per la ripresa delle attività culturali, ma questo è un altro discorso.
Il tema del festivalfilosofia 2020 è “macchine”. La pandemia ci ha ricordato sia la fragilità del corpo organico ma anche la potenziale pericolosità dell’interazione fra corpi. Può farci riconfigurare come positive immagini come il transumanesimo o la sostituzione da parte della macchina sul lavoro? Penso anche alle persone che sono costrette in questi giorni a lavorare al contatto col pubblico.
È una domanda complessa, e non so se ho tutti gli elementi per rispondere. Ci provo.
Transumanesimo e automazione sono fenomeni distinti, mentre la pandemia è un evento straordinario che, pur con tutto il senso di responsabilità del caso, dobbiamo considerare come tale. Sarebbe davvero un disastro, un cedimento a paure ingovernate, se ne uscissimo pensando che l’interazione tra i corpi è di per sé pericolosa.
Che la vita sia fragile lo sapevamo anche prima della pandemia, per questo occorre tutelarla e curarla. Non credo che il metodo più ragionevole, e neanche il più realistico, tanto a breve quanto a medio-lungo termine, sia cercare di “uploadare” la mente su un computer e liberarsi del corpo, come nella visione oggettivamente millenaristica dei transumanisti, che è comunque affascinante perché è un’avventura del pensiero.
Quanto all’automazione o alla “smartizzazione” del lavoro, è un processo in corso da tempo, di cui tuttavia questa emergenza, almeno nel nostro Paese, ha spietatamente mostrato le arretratezze connesse non solo al “digital divide” di cui si parlava, ma anche ad alcune resistenze mentali, che magari con questa accelerazione verranno superate.
Dico tutto questo sapendo che potrei essere smentito dal corso dei fatti, soprattutto se questa fase si rivelerà davvero profonda. Non c’è dubbio che si tratti di un’emergenza sanitaria, ovviamente, e non c’è nemmeno dubbio che stia già determinando una seria crisi economica che potrebbe aggravarsi. Non è ancora chiaro, tuttavia, se spingerà verso una svolta culturale. E anche in quel caso, non possiamo ancora sapere svolta verso dove. Potremmo trovarci di fronte a nuovi isolazionismi culturali derivati dalla paura di futuri contagi, e quindi alla fine della globalizzazione, oppure a un ulteriore scatto dei processi di innovazione cui abbiamo accennato, in chiave di intensificazione della protezione scientifica della specie. Come in ogni vera seria crisi, e credo che questa lo sia su vari piani, le risposte culturali le vedremo alla fine, perché implicano elaborazione. Una sola cosa possiamo fare: non smettere di cercare.