Nell’ultimo meeting di MoCu, è stata lanciata l’idea di commemorare oggi, 14 febbraio, Luigi Ghirri (1943-1992). Subito, ho pensato che il miglior modo per omaggiare uno dei grandi maestri dell’arte del ‘900 (per me personalmente uno dei più importanti), era quello di darne un ritratto intimo e inedito. Dieci anni fa sul magazine Pizza, con il fotografo Marco Marzocchi, mi recai a Roncocesi per fotografare la casa e per parlare con Paola (la moglie, anche lei purtroppo prematuramente scomparsa) del rapporto tra lei e Luigi.
L’idea che mi è balenata subito, era di continuare questa visione intima e personale, attraverso la testimonianza delle due figlie: Ilaria e Adele. La domanda che ho posto a loro è “Che rapporto umano ed intellettuale hai con la figura di tuo padre?”
Non c’è nulla da dire di più, se non invitarvi a immergervi in un mondo che per me ha sempre dell’incredibile ed è sempre emozionalmente coinvolgente. Buona lettura ed emozionatevi come ho fatto io (Jumbo) in questo viaggio, che vorrei che non avesse mai un finale.
Ilaria Ghirri
Modena, 9 febbraio 2019
Luigi non dimenticherò mai la tenerezza con cui parlavi del mondo…
cit. dipendente di Artemide 14 – La Repubblica – 15 febbraio 1992
Ancora ricordo con immensa gratitudine questa frase scritta in occasione della morte di mio padre su un quotidiano. Pensare al rapporto con lui e il suo lavoro significa riferirsi al suo amore per il mondo, a come lo vedeva e lo interpretava attraverso la macchina fotografica che aveva un legame profondo con il suo essere, la memoria e allo stesso tempo un’idea di mondo in equilibrio così naturale, umano ed etico tra l’uomo e il mondo, tra interno ed esterno. Un approccio umile alle cose, una capacità di mettersi in ascolto, lontano da visioni straordinarie sapendo che tutto conta e può far parte della visione basta fermarsi e guardare con attenzione per potersi stupire nuovamente di ciò che credevamo di conoscere riattivando memorie, pensieri e visioni sempre nuovi.
Avevo 9 anni quando mi chiese cosa significava secondo me la sua fotografia ed io risposi (pur intuendo l’enormità della domanda) che per me voleva dire che dovevamo fare attenzione anche alle cose più insignificanti perché erano importanti e potevano dire tante cose. Non mi spiegò, non aggiunse nulla, mi accarezzò e accese la radio.
Da quando ero una bambina ho con lui ricordi indelebili di tanto tempo trascorso insieme nei modi più svariati: ascoltando musica, ballando il twist, 24.000 baci di Celentano o cantando Bartali a squarciagola, di pomeriggi interi trascorsi in libreria tirandolo per il cappotto per “costringerlo” ad uscire dopo ore, di giornate trascorse nei negozi di dischi di cui conosceva a memoria scansie e autori, altre passate a cercare di vendere libri nella piccola libreria di usato vicino a casa sua per potersi permettere un pasto decente e naturalmente qualche nuovo libro o rivista.
L’ho accompagnato per anni dallo stampatore Arrigo Ghi durante le fasi di stampa per verificare che i colori non fossero saturi ed innaturali e che il cielo fosse azzurro come lui lo aveva visto nell’inquadratura. L’ho aiutato ad incollare le foto nei passe-partout prima della Biennale, l’ho abbracciato quando piangeva per lo stress, i debiti, la difficoltà di riuscire a pagare l’affitto.
Abbiamo viaggiato moltissimo insieme lungo la via Emilia tra Modena e Reggio Emilia dove abitavano mia zia Roberta e i miei nonni paterni, poi per lavoro lungo campagne, musei, città. Ci accompagnava sempre la musica di Dylan in auto, le nostre mani spesso si intrecciavano in silenzio tradendo un’empatia ed una profonda comprensione reciproca mai più ritrovata e godendo di ciò che ci offriva il mondo guardandolo dal finestrino.
L’ho visto lavorare fino allo sfinimento amando ciò che faceva senza posa per portare avanti progetti editoriali innovativi o trasformare in libri le sue visioni alla luce rischiando in prima persona sempre, essere vorace di tutto ciò che lo circondava e che amava conoscere con un’allegria e una leggerezza che non avevano bisogno di parole. Era bello affiancarlo intuendo dove e quando si sarebbe fermato per uno scatto, aiutarlo a misurare la luce cercando di non interrompere quell’ingranaggio sempre in movimento che era il suo cervello.
Grazie a lui ho imparato a guardare il mondo con meno paura e più fiducia, senza spocchia, ma con l’umiltà di chi sa che ogni più piccolo angolo può essere la soglia di qualcosa di unico da raccontare, basta mettersi in ascolto e guardare con attenzione.
Porto con me il suo modo di pensare al mondo sperando in un rallentamento che ci possa ancora permettere di trovarci stupiti e in armonia con un esterno che spesso ci appare minaccioso ed ostile, ritrovando una pulizia ed un’etica dello sguardo che sembrano spesso impossibili in un mondo sempre più invaso da immagini di ogni tipo. Custodisco l’importanza fondamentale della memoria, della capacità di sognare e progettare come di conoscere e di faticare. Passione e curiosità sono le due parole che più forse lo dipingono qual era oltre ad un’innata simpatia e lungimiranza.
Oggi che insegno alle scuole elementari, conservo il suo modo tenero, ma profondo e poetico, di vedere il mondo mentre la mia più grande gioia è avere il privilegio di andare quando posso nella casa di Roncocesi dove ha sede l’archivio a riordinare i suoi libri che mi danno un’ulteriore possibilità di ri-conoscerlo riordinandoli e sedermi al computer con mia sorella Adele scorrendo insieme le fotografie del prossimo libro e ritrovandoci a ridere, stupirci, parlare di lui che, ne sono certa, è proprio lì tra le nostre risate e memorie che entra dal fascio di luce della finestra dello studio mentre il vento muove le foglie del tiglio che ha piantato quando è nata Adele.
Adele Ghirri
In volo sull’Emilia Romagna, 10 Febbraio 2019
Mi poni una domanda apparentemente semplice alla quale mi trovo a rispondere con una certa difficoltà. Ho trascorso solo i primi quattordici mesi della mia vita insieme a mio padre.
Non conservo alcun ricordo dell’anno che ho passato insieme a lui.
Non abbiamo mai avuto una conversazione. Il fatto di non avere ricordi di mio padre Luigi implica inevitabilmente che il mio rapporto con la sua figura non possa basarsi su una vera e propria memoria episodica, ma prenda continuamente la forma di un dialogo che non può che essere immaginario.
Non avere memoria di un rapporto significa per me doverlo costruire ogni giorno, nel presente, grazie ai racconti di altri, e soprattutto attraverso le parole dei suoi scritti e le immagini che mi (che ci) ha lasciato.
Non mi sento di essere cresciuta senza un padre.
Non ho memoria di lui, ma non ho neanche memoria di un giorno in cui non abbia letto il suo nome da qualche parte, in cui non abbia sentito parlarne da mia madre, in cui non abbia visto una delle sue fotografie.
La mancanza di ricordi è sempre, costantemente, stata affiancata da un continuo ricordarmi che Luigi è stato al mondo. Il mio rapporto con la sua figura è molto ambiguo e non smetterà mai di esserlo.
Non c’è stato durante la mia crescita eppure sono cresciuta in mezzo alle tracce, o meglio ai segni da lui lasciati. Questi segni costituiscono per me (prendendo in prestito una metafora che lui stesso ha usato) un geroglifico – non totale, ma intimo – da decifrare, sapendo che non lo decifrerò mai definitivamente.
Dovermi occupare del suo lavoro è per me una enorme responsabilità, comporta tanti dubbi, devo imparare ancora moltissimo, ma sento l’esigenza di farlo e mi rende felice.
Mi rendo conto di stare rispondendo alla tua domanda in maniera incerta, ma non potrebbe essere altrimenti.
Credo che il mio rapporto con la sua figura, per così dire, intellettuale possa anche descriversi con la parola insegnamento. Ilaria ha parlato molto dello sguardo di nostro padre nei confronti del mondo, e di quanto il suo pensiero implichi un profondo, naturale rispetto verso di esso, verso il ‘fuori’, verso l’altro. Del fatto che il suo lavoro sia un ricordarci che abbiamo il gentile potere di scegliere quale punto di vista adottare, senza per questo rifiutare la naturale ambiguità delle cose, delle immagini, dello spazio, del tempo e della visione stessa, ma accogliendola.
È come se nel suo lavoro e nella sua filosofia della visione fossero già contenuti tutti gli insegnamenti da seguire dopo la morte dei miei genitori, avvenuta il 14 Febbraio 1992 e l’8 Novembre del 2011. Gli insegnamenti di entrambi e il loro lascito mi hanno dato e mi danno ogni giorno gli strumenti per affrontare la loro stessa assenza, e questo costituisce contemporaneamente, e ambiguamente, la più grande forma di presenza.
Sto per atterrare a Parigi dove domani inaugurerà The Map and the Territory, la prima grande mostra personale nei musei europei. In mostra c’è una foto in cui compare una coppia di signori anziani. Camminano su un cavalcavia di Modena con alle spalle uno striscione pubblicitario della Coop, in uno scenario desolante che all’apparenza sembrerebbe tutt’altro che fotografabile.
Penso allo spostamento del punto di vista.
Sotto di me vedo le nubi bianche. Da qui non appaiono nello stesso modo in cui le vediamo normalmente, sembrano anzi una informe distesa innevata che si estende a perdita d’occhio. Qualcuno, sulla Terra, di queste stesse nuvole sta guardando il profilo.