Due anni dopo la collettiva 1984. Evoluzione e rigenerazione del writing presso la Galleria Civica di Modena, Francesco Barbieri riporta a Modena le sue città, in grado di evocare un futuro distopico raccontando contemporaneamente una realtà già attuale, con una personale curata dalla galleria D406.
Nello studio del fotografo Rolando Paolo Guerzoni, in piazza della Pomposa, viene presentata una selezione di opere che raccontano la poetica dell’artista pisano, che deve al suo passato di graffiti writer la capacità di raccontare la bellezza disperata e la magia noire delle metropoli.
I lavori esposti sono eterogenei per tecnica e dimensioni; dalle carte, un must assoluto per la linea curatoriale di D406, alle tele, passando per 4 dipinti della serie che rappresenta l’ultima evoluzione del percorso dell’artista realizzati su stampe fotografiche.
Per sapere qualcosa in più sull’artista e su Recipe for a disaster, abbiamo fatto qualche domanda a Pietro Rivasi, curatore della mostra.
Se non l’avete ancora visitata, il consiglio è di approfittare di questi ultimi giorni per vedere le opere di persona. Con MoCu non mancheremo di aggiornarvi sulla data del finissage.
Francesco Barbieri aveva già esposto a Modena in occasione di 1984. Evoluzione e rigenerazione del writing. Com’è nata l’idea di fare una personale? Qual è il suo rapporto con Modena?
Il primo intervento di Francesco Barbieri in città risale all’edizione 2013 di Icone, quella per sostenere i territori colpiti dal terremoto del 2012. In quell’occasione realizzò una parete, tutt’ora in ottimo stato, del cavalcavia Cialdini. È uno dei pochissimi muri che ha mai realizzato con l’estetica che utilizza per i suoi quadri.
Successivamente come dicevi, l’ho inserito nella line up di 1984. Evoluzione e rigenerazione del writing, perché permetteva di mostrare come l’occhio e l’esperienza di un writer vedono ed interpretano il paesaggio. (A questo link il video della conferenza stampa della mostra).
Così, al figurativo di Cony, all’astratto di Saeio, CT, alle lettere di Chob, ho potuto affiancare anche un autore che lavora sul paesaggio in modo contemporaneo, perfettamente coerente con il resto degli artisti per quanto riguarda il percorso.
Mi interessava inoltre esporre in quel contesto qualcuno che non avesse mai voluto spendere il suo famosissimo nome di strada, la sua tag, per promuoversi come artista da galleria o museo. E lui in Italia è forse l’esempio più importante di questa categoria di coraggiosi.
Il suo rapporto con la città credo sia legato a queste esperienze ed al rapporto personale che abbiamo sviluppato negli anni.
Lo conosco credo dalla fine degli anni ’90, prima per fama, poi in modo “virtuale” ed infine personalmente. Negli ultimi anni poi i rapporti si sono intensificati ed oltre a stimarlo molto come artista, motivo per il quale cerco di seguirlo e sostenerlo, mi aiuta spesso come “peer reviewer” per i testi che scrivo.
L’idea di una personale è nata dal fatto che sia io che Andrea Losavio lo stimiamo come artista e come persona, ed avendo una galleria specializzata in disegno ed illustrazione, la cosa è andata da se. Tutto è stato ufficializzato dopo aver visitato la sua personale di Pontedera al museo Piaggio. Poi c’è voluto un po’ per incastrare gli impegni di tutti.
Recipe for a disaster, Ricette per un disastro. Com’è nato questo titolo?
Recipe for disaster è il titolo di un libro di Crimethink, una casa editrice anarchica americana. Sostanzialmente è un manuale di istruzioni per la guerriglia urbana. Il titolo è liberamente ispirato a quel libro e, almeno per me, fa riferimento alla apocalisse sociale e ambientale verso la quale l’attuale modello di sviluppo ci sta lanciando sempre più veloci e di cui le megalopoli, spesso soggetto dei quadri di Francesco, sono un indiscutibile prodotto.
Tra le opere in esposizione troviamo qualcosa di nuovo: i lavori su fotografia. Come si inseriscono all’interno del percorso di artista?
Sono le opere che danno un senso al mio lavoro di curatore rispetto a questa mostra, nel senso che è una proposta che gli ho fatto durante una delle nostre molte discussioni sull’arte e dintorni.
Nell’immaginare una delle possibili evoluzioni del percorso, ho proposto a Francesco l’intervento sulle foto, qualcosa che sapevo probabilmente gli sarebbe interessato per vari motivi, che vanno dalle possibilità estetiche, ai richiami ad alcuni grandi artisti che so stimare. Ed infatti, ha accettato. Sono le prime 4 che espone, anche se la fotografia, sotto forma di fotocopia in bianco e nero, è già presente in molti suoi lavori “tecnica mista”.
Questi lavori su fotografia riguardano direttamente Modena. Come è nata l’idea di lavorare su spazi della nostra città?
D406 è da sempre una galleria abbastanza militante, sia per una questione di “dna” dei soci, che per volontà “curatoriale”.
È stato per questo naturale proporre qualcosa che riprendesse una delle battaglie più seguite e popolari che stanno vedendo protagonista la nostra città, quella contro l’inutile consumo di suolo.
Di conseguenza, essendo il lavoro di Francesco incentrato sulla rappresentazione di realtà iper antropizzate, si è manifestata l’opportunità di immaginare quale potrebbe essere il destino di 3 campi ancora verdi nella realtà, ma da anni considerati come già edificati dalla burocrazia: Vaciglio, Santa Caterina e Via Fratelli Rosselli.
Quella modenese è una realtà già molto edificata, dove ci sono migliaia di appartamenti vuoti e centinaia di capannoni che andrebbero bonificati e rigenerati. Nonostante questo, e nonostante negli ultimi 6 anni siamo stati vittime di uno spaventoso terremoto, di u’alluvione e siamo una delle città più inquinate d’Europa, la politica non è stata in grado di sfruttare questo potenziale per arrestare il consumo di suolo.
Queste opere vogliono dunque fare riflettere su queste tematiche.
Dal punto di vista strettamente artistico invece, la cosa penso sia più sottile. Mi interessava spingere Francesco, che rifiuta in modo categorico di rappresentare luoghi reali, a doversi confrontare con posti specifici: da qui l’idea di utilizzare le fotografie. Siccome poi lui dipinge delle città, usare spazi verdi dava l’opportunità di fare scontrare il futuro distopico delle sue città immaginate, con la realtà ancora “vergine” catturata dalle fotografie.
L’unico problema che ha dato questo esperimento, è che le sue città sono decisamente più affascinanti della realtà orrenda che ci troviamo intorno, e questo magari potrebbe creare dei fraintendimenti, ma va bene ugualmente: l’arte deve instillare una riflessone, non dare giudizi.
Come è nata la collaborazione con Cinzia Ascari, autrice delle foto?
La collaborazione con Cinzia è nata a causa delle sue proverbiali disponibilità e capacità. È una amica, è appassionatissima di arte e si occupa di immagini digitali da molti anni. Sapevo che le piacevano le opere di Francesco, quindi ho sperato che non prendesse l’idea di far dipingere da lui una sua fotografia come uno sminuire un suo lavoro, ma al contrario, come una opportunità di creare qualcosa a 4 mani. Così è stato e credo che i risultati siano davvero ottimi.
Una mostra molto attuale per i temi che affronta e le riflessioni che solleva. Con quale approccio un modenese dovrebbe accostarsi a questa mostra?
Con l’approccio di un cittadino di qualsiasi città: curioso e pronto ad approfondire gli spunti che una mostra deve saper dare.