Nel 2009 il Tricycle Theatre of London, il più significativo teatro ‘politico’ della Gran Bretagna, commissiona la scrittura di dodici testi riguardanti episodi significativi della storia afgana a partire dal 1892 fino ai giorni nostri.
Nicolas Kent e il suo team hanno commissionato queste opere teatrali ad un altrettanto numero di autori angloamericani, per dare vita al progetto The Great Game. Le motivazioni per cui venne commissionata questa maestosa opera teatrale sono a me ignote, ma posso immaginare perché Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani abbiano deciso di impugnarla e proporla nei teatri italiani. Pochi conoscono davvero le articolate e complesse vicende che si sono susseguite in Medio Oriente nell’ultimo secolo e il perché si sia sviluppata una forma d’odio così ben radicata nei confronti del mondo occidentale. Personalmente credo sia necessario farsi delle domande. È troppo facile puntare il dito ed incolpare qualcun altro.
La versione che Bruni e De Capitani portano in scena è composta da 10 dei testi originali ed è suddivisa in 2 parti: la prima, Afghanistan: Il grande gioco portata in scena l’anno scorso e riproposta quest’anno in maratona con la seconda parte Afghanistan: Enduring Freedom. Insieme mostrano un quadro complessivo degli episodi che si sono svolti in Afghanistan dalla fine dell’800 ad oggi, spiegando come si è arrivati all’attuale situazione. Se la prima parte tratta di eventi lontani e quindi parzialmente sconosciuti (dal 1842 al 1996), la seconda parte invece (dal 1996 al 2010) si addentra in dinamiche a noi già note.
Mi piacerebbe parlare della bravura degli attori, capaci di trasmettere perfettamente la condizione dei personaggi che interpretano, di come l’essenziale scenografia, di volta in volta ricomposta dagli attori stessi in una penombra appena visibile, sia di forte impatto, di come le proiezioni video riescano continuamente a ricordarci che non sono storie inventate quelle che ci vengono raccontate, ma sono fatti veri e propri, i quali ci sono sbattuti in faccia in tutta la loro crudeltà.
Mi piacerebbe parlare delle singole storie che compongono quest’opera, storie di conflitto, di visioni contrastanti, di impotenza, odio e speranza, di uomini, donne e bambini, di soldati, di persone.
Vorrei parlare dell’invadenza occidentale e di come sia stata responsabile dei tragici avvenimenti successivi, vorrei parlare degli orrori del dominio talebano, di un paese distrutto.
Mi piacerebbe parlare di tutto ciò, ma non lo farò. Perché questo spettacolo ha un altro obiettivo, un dovere morale che coinvolge tutti noi: aprirci gli occhi.