È venuta amara, alla fine si è guastata.
Pubblico amato, pensa allora per te un finale!
Di un’anima buona, abbiamo un bisogno reale!Bertolt Brecht
Arrivo a teatro incredibilmente puntuale. Entro in una biglietteria gremita di signore imbacuccate, spaventate dai pochi gradi esterni. Bè, qui la temperatura è tutt’altra cosa. Comunque, è la prima volta in cui trovo l’accesso a platea e balconate ancora chiuso, motivo per il quale sono tutti ammassati nell’ingresso e non si capisce chi sia in fila e chi no. Riesco a raggiungere lo sportello per ritirare il mio biglietto, tutta baldanzosa, contenta di vedere quest’opera di Bertold Brecht a me finora sconosciuta. Chiedo: “Quanto dura?”. Lo chiedo sempre, è l’abitudine, per sapere di che morte morire. Risposta: “2 ore e mezza con intervallo”.
Tutta l’allegria scompare e mi sale un certo sconforto, m’immagino già seduta e accerchiata da gente assopita, col solito signore seduto a fianco che mi russa nell’orecchio. Sì, di solito il Teatro Storchi ha pubblico che per età non è proprio simile a me e l’odore di canfora predomina. Entro in platea e sono stranamente assediata da scolaresche e gruppi di adolescenti che si accalcano alla ricerca del proprio posto a sedere. Evidentemente Brecht fa parte del loro programma di studio, mica male, tutto sommato. Ho un bel posto in sesta fila, centralissimo, e sono di fianco a una sfilza di ragazzotte minorenni, più interessate al loro telefonino (che resta acceso per quasi tutto lo spettacolo) che agli avvenimenti che si compiono sul palco. Sto già rimpiangendo il signore ronfante. In ogni caso, lo spettacolo riesce ad attirare la mia attenzione in maniera totalizzante.
La scenografia è scarna, composta solo da qualche ponteggio e un palchetto in legno naturale. Il faro che mima la luna nel cielo e la musica dal vivo (l’artista si trova sul fondo del palco ed è visibile al pubblico) mi trasportano nella remota provincia cinese del Sezuan. Gli attori indossano costumi con tessuti morbidi, ampi, che esaltano l’espressività corporea, fondamentale, in quanto sono tutti mascherati ed il viso è coperto. Sul palco c’è grande movimento, un continuo susseguirsi di figure che entrano, escono e ondeggiano in completa armonia le une con le altre. Puro dinamismo. Sembrano esserci decine e decine di attori, ma guardando il foglio di sala scopro che sono solo nove gli attori e che ricoprono ben venticinque differenti ruoli. Ogni personaggio, infatti, è caratterizzato da un accento, un tono di voce e movimenti specifici. Nonostante i visi siano coperti, non ci si può confondere.
L’anima buona del Sezuan parla delle vicende di Shen‐Tè, una prostituta che vive a Sezuan in un momento di forte crisi e povertà, costretta a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Lei sarà l’unica ad offrire accoglienza a tre Dei in giro per la Cina alla ricerca delle anime buone. Per ringraziarla dell’ospitalità le regalano del denaro col quale potrà elevarsi e che lei decide di investire in una tabaccheria. Gli abitanti del quartiere però, egoisti e meschini e soprattutto consci della sua generosità, ne approfittano chiedendole ospitalità, cibo e aiuto. Per difendersi, Shen‐Tè è costretta a dare vita al suo alter ego, Shui‐Tà, avido ed egoista ‘cugino’ arrivato a Sezuan per amministrare la tabaccheria, capace di dire ‘no’ davanti alle insistenti richieste di aiuto degli abitanti. In un susseguirsi di eventi tra cui un matrimonio annullato e una gravidanza, si solidifica l’idea di come il bene, spesso e volentieri, non paghi, nonostante i tre Dei restino convinti del contrario, e spingano She‐Tè a perpetrare la bontà.
Si esce dal teatro con gli occhi pieni di bellezza, arricchiti e con la consapevolezza di aver visto qualcosa di unico. Unica nota dolente: i posti vuoti. Non c’è nulla di più triste di un teatro desolato, soprattutto quando c’è così tanta arte e capacità da poter guardare, respirare, condividere.