Jean-Michel Basquiat prima di essere riconosciuto col suo nome viene identificato col tag SAMO, acronimo di Same Old Shit, firma ideata con Al Diaz da ragazzini durante gli anni delle superiori.

Quella di Basquiat è un’arte complessa che attinge da diversi codici culturali. Parte dalle strade del South Bronx in una New York composta da una struttura sociale frazionata in quartieri multietnici, coerentemente con l’ipocrisia delle politiche di segregazione prima e desegregazione poi.

Un’espressione artistica che sorge lungo le zone frazionate di Manhattan come Lower East Side e il già citato South Bronx, che nasceva ai confini delle frontiere dell’isola. Aree marginalizzate non solo geograficamente ma da un sistema al collasso che vedeva politiche sociali impari fra l’uomo bianco benestante e tutti gli altri.

Proprio da qui venne il nome della mostra: Arte di Frontiera: New York graffiti, voluta dalla curatrice e professoressa del DAMS Francesca Alinovi, nel 1984 presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna.

In questa esposizione, la prima sui generis in Europa su writing e in generale di arte urbana, Basquiat non compariva, già troppo famoso e tenuto ben marcato dai suoi galleristi principali. C’erano però diversi autori della stessa crew, come: Keith Haring, Rammelzee, Phase II, John Ahern che con le sue installazioni raffigura membri della comunità ispanica e afroamericana, ancora una volta una critica nei confronti di un sistema sociale razzista.

Solo tre anni prima Emilio Mazzoli presso la sua galleria a Modena espose, per la prima volta in Europa, Jean-Michel Basquiat che scoprì alla mostra tanto attesa dagli addetti ai lavori: New York New Wawe.

1981. Jean-Michel Basquiat con Emilio Mazzoli.

Nonostante diverse connessioni col movimento Basquiat resta ai margini del writing, sviluppando un’espressione artistica personale composta da pittogrammi urbani dai tratti primitivi che risentono molto delle sue origini familiari, padre haitiano madre portoricana, maschere apotropaiche tipiche delle culture di origine dei suoi genitori.

Frasi spezzate, mangiate: i resti di parole americane ma anche haitiane (coloni francesi) e portoricane (coloni spagnoli).

Giochi di parole, neologismi critici mixando più lingue, come il contemporaneo Babi Badalov.

Babi Badalov

Raramente assente nelle sue opere la critica al razzismo e all’esclusione dalla società delle persone di colore.

Come la ripetuta scritta NON CI SONO NERI NEI MUSEI o per citare un quadro specifico: Versus Medici

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Quadro realizzato in seguito al soggiorno italiano, dal quale rimase impresso dalla storia dei Medici e di come anche questi hanno contribuito a scrivere una storia dell’arte senza persone nere.

Grazie alla chiacchierata con Pietro Rivasi guardiamo a quel periodo pensando all’arte urbana oggi, a quanto è cambiata nella sua evoluzione e/o involuzione.

Ci si interroga su quanto sia sottile il confine fra un’espressione artistica conosciuta e stimata perché rappresentativa di una reazione a una contemporaneità e quella moda prȇt-à-porter tipica della nostra epoca che invece di creare stili produce banali prodotti su serie da consumare entro la data di scadenza.

Si riflette su violenze e abusi anticulturali da parte di operatori che con fare da colonizzatori vanno a strappare opere dai loro contesti naturali, decontestualizzandole. Un esempio? Le opere di Blu alla mostra Street Art – Banksy & Co realizzata nel 2016 a Bologna.

Le ipocrisie tali per cui vengono demoliti centri sociali riconosciuti per l’importante impegno sociale culturale sul territorio solo perché abusivi, un esempio? Il Labas.

Si parla di un fenomeno per sua natura invasivo che si ritrova a dover chiedere il permesso. Resta però la consapevolezza che di artisti validi ce ne sono ancora tanti e proprio per questi è fondamentale continuare a promuovere e preservare nel pieno rispetto di un movimento che ha valori e regole ben precisi.

Pietro Rivasi: passato da writer, per alcuni anni socio della galleria D406 tra gli ideatori del progetto Icone: uno dei primi festival italiani di writing e street art.

Curatore indipendente specializzato sulla scena del writing dagli anni ‘90 ad oggi. Collezionista appassionato di pubblicazioni l’anno scorso (2020) porta a Modena Unlock Book Fair, fiera internazionale di editoria indipendente interamente legata alle espressioni artistiche urbane.

Insieme a Pierpaolo Ascari, crea Urbaner sito web nato dalla sinergia con il Comune di Modena con la volontà di riconoscere e valorizzare le culture che si formano in ambito urbano in una prospettiva estetica, sociale e antropologica.

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Pietro Rivasi in occasione della mostra “1984. Evoluzione e rigenerazione del writing” a Modena

Durante il primo soggiorno di Jean-Michel Basquiat a Modena, l’artista irruppe in galleria esprimendo il forte desiderio di dipingere i due grandi palazzi in cemento di via Fleming. Nonostante gli sforzi di Mazzoli nello spiegare l’enorme valore artistico culturale di quella operazione, il Comune non accettò. Oggi, la situazione è ben diversa complice anche una moda del momento nei confronti delle espressioni artistiche urbane. È possibile instaurare un dialogo, culturalmente parlando, di valore tra la strada e le istituzioni?

Purtroppo non so risponderti e diventerò autoreferenziale perché gli esempi che conosco meglio sono solo quelli che ho più vicini.

Sul discorso dei muri commissionati, negli anni ho maturato un po’ l’idea che servano davvero molto poco per il reale riconoscimento del valore artistico culturale di movimenti come writing e street art, servono invece soprattutto a dire che rappresentano la “maturazione di ragazzi che da giovani dipingevano di notte, poi sono cresciuti e diventati veri artisti”. Non ho nulla contro i murales, i muri liberi e le commissioni, ma credo si debba dopo tanti anni di esperienza, cercare di essere consapevoli di quello che queste situazioni rappresentano e dell’impatto positivo o negativo che possono avere non solo sulla città e i suoi quartieri ma anche sul “movimento”.

D’altra parte credo che con progetti come Urbaner e la catalogazione da parte di PATer di opere appartenenti al cosiddetto mondo dell’arte urbana contemporanea, ci si avvicini molto a questo perché sono due percorsi che in modo esplicito riconoscono il valore culturale e sociale di esperienze controverse, senza la ruffianeria di approdare al riconoscimento solo dopo che questi linguaggi si sono tradotti su superfici e contesti meno complicati da raccontare al cittadino.

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Scheda dedicate sul sito del Patrimonio Culturale dell’Emilia-Romagna. Longe (succesivamente RB – PK) – Chob WMN (successivamente RB – THE – BBS – FIA – WMD) – Oida 257 WMN, Bologna 1996 su Pendolino FS. Foto da pagina 26-27 del numero 18 di Aelle Magazine, luglio-agosto 1996.

Provo a spiegarmi: non so esattamente per quale motivo non siano stati lasciati dipingere quei muri a Basquiat, ma non penso ci sia nulla di particolarmente delicato o politicamente controverso da parte di un amministratore nel far dipingere una parete con tutti i permessi del caso; forse neppure negli anni ‘80, pensiamo ad alcuni lavori realizzati nelle polisportive di Modena (Villa D’Oro).

Molto più delicato credo sia sostenere dei progetti pubblici che in sostanza dicono tra le altre cose, che il centro sociale XY sgomberato a suon di manganellate e delegittimazione, sia stato uno dei più importanti poli culturali della regione. Questo in Emilia-Romagna sta succedendo, è un piccolo passo che speriamo nel tempo porti a risultati ben più ampi.

 

Prima di Jean-Michel Basquiat era SAMO. Origini nel writing. 

Il writing ha avuto una genesi abbastanza precisa: ragazzini di New York, dagli undici anni in su, che facevano quello che tutta l’umanità ha sempre fatto: scrivere il proprio nome in giro.

A un certo punto questo scrivere il nome assume delle caratteristiche uniche: questi ragazzini per far si che il loro nome emergesse fra quelli dei coetanei iniziano a scrivere più grande, scrivere di più, scrivono in modo da stupire gli altri, quindi cominciano ad abbellire le lettere a farle più colorate. Questa sfida di stile approda sulle carrozze della metropolitana e diventa impossibile da ignorare attirando sempre più l’attenzione di giornalisti e studiosi quali antropologi, critici ecc.

Diventa un fenomeno invasivo che procede come una specie di valanga: si alimenta man mano che diventa più popolare attraverso il rilancio dei media.

La prima legge contro i writers è del ‘71, la prima mostra nel ’73 e da lì in poi comincia ad approdare nel Vecchio Continente; inizia ad attecchire in paesi con una composizione sociale e urbanistica completamente diversa da quella degli Stati Uniti, acquisendo delle caratteristiche di volta in volta molto particolari.

Ad esempio, in città come Amsterdam il writing arriva abbastanza presto, inizi anni ’80 avevano già una scena che scriveva sui muri, i punk e si mischia con questi stili di importazione americana. Si verificano queste diversificazioni e questa divisione fra il writing americano e quello europeo.

Bisogna ricordarsi che New York era una città fallita, era in una crisi economica spaventosa; c’era una composizione sociale che in Europa non sapevamo nemmeno cosa fosse. Basti pensare tutta la componente di immigrati ispanici, italiani, afroamericani con tutte le problematiche che un tessuto sociale del genere poteva avere e chi ha dato vita al writing sono proprio questi ragazzini!

Quasi tutti i riferimenti all’interno di questo movimento sono ripresi dalla cultura popolare: Tv, fumetti, musica.

La consapevolezza era diversa, molto diversa rispetto ad esempio a Keith Haring che studiò arte. Questi ragazzini non avevano la minima idea e neanche la pretesa di fare arte, avevano una forte necessità di esprimersi e per farlo, rubavano il materiale che trovavano e “creavano” dove volevano.

 

Cosa attirò l’attenzione dei galleristi di Soho verso le produzioni artistiche della strada?

Secondo me anche la storia che è passata per Modena dichiara una cosa: le gallerie importanti, i galleristi potenti, sicuramente acculturati ma che comunque avevano la possibilità di decidere se un artista sarebbe diventato la nuova macchina da soldi, selezionano alcuni nomi all’interno di un panorama che si muoveva per le strade di New York.

Tra i nomi che sono diventati giganteschi, alcuni lavoravano in strada e lavoravano in maniera diversa gli uni dagli altri: non solo Haring era diverso da Dondi o da Lee che iniziano a prendere contatti con le gallerie, ma era diverso anche da quello che faceva Basquiat.

Ci sono altri nomi, Harrington, Kenny Sharf, anche loro diventati piuttosto importanti. Sul perché queste forme di espressione siano approdate in un certo modo nelle gallerie, mi rifaccio a quello che dice Collettivo Fx: c’era necessità di trovare una nuova forma di pittura che diventasse appetibile per i collezionisti, vennero selezionati quelli che a livello pittorico potevano garantire la commerciabilità.

Quindi un’operazione abbastanza scientifica che ha dato i risultati che abbiamo visto: Keith Haring e Basquiat hanno quotazioni a nove zeri, Dondi forse comincerà ad avercele adesso. Ora, non so la differenza in termini di valori di zeri fra Phase 2 e Keith Haring ma il primo è uno dei principali rappresenti di un movimento che ha modificato la faccia delle città di tutto il mondo: per me non c’è paragone tra l’importanza che può aver avuto per storia dell’arte contemporanea Phase 2 rispetto a Keith Haring ma il mercato ha decretato una storia diversa.

Il mercato non si fa da solo, si fa coi critici, con le gallerie, le fondazioni, i musei e la mia impressione è che spesso la differenza fra “valore culturale” e “valore di mercato” distorca la realtà.

 

Fermo restando che l’approvazione del pubblico da parte dell’artista di rado avviene in concomitanza alla sua produzione, serve il tempo allo sguardo di essere educato. Quant’è labile il confine fra un’espressione artistica conosciuta e stimata perché rappresentativa di una contemporaneità e la semplice moda? Fin dove va bene e dove si arriva oltre?

Secondo me l’esempio contemporaneo che credo possa riassumere quello che vuoi dire è Exit through the giftshop di Banksy che narra la creazione a tavolino di un artista e del suo mercato. Non ho idea di come si potrebbero creare questi confini perché troppe cose concorrono al successo dei singoli nomi. Per capire quali sono i writers interessanti rispetto ad altri bisogna secondo me capire quali sono quelli che hanno fatto la storia per strada, cioè quelli che hanno lavorato in maniera seria e continuativa nel modificare lo spazio pubblico perché altrimenti parliamo di artisti che potrebbero aver lavorato in studio tutta una vita e non ci sarebbe niente di diverso da tutti gli altri.

Queste sono le caratteristiche che hanno reso quei ragazzini di New York famosi in tutto il mondo: se avessero disegnato su un quaderno di carta non li avrebbe considerati nessuno. Il fatto che li facessero sui treni aveva un impatto, una potenza enorme: si percepiva una eccezionalità delle azioni. E proprio l’azione, il fatto di riuscire a realizzare quei lavori , con quelle dimensioni in quelle circostanze di pericolo o comunque non nella comodità di casa ma facendo cose che cambiavano lo spazio.

Quello che per me un po’ stride, è che alla pari di Basquiat e di Haring non siano riconosciuti artisti che sono stati fondamentali per la nascita di questo movimento, movimento all’interno del quale gli stessi Haring e Basquiat vengono inseriti.

Per il discorso moda, oggi c’è una questione per cui c’è grande attenzione l’arte urbana. C’è un proliferare di artisti che si buttano a capofitto per approfittare dell’hype del momento e spesso la qualità non è che ne guadagni. Ti ritrovi della roba imbarazzante pubblicata da testate come La Repubblica: quando aumenta l’attenzione-moda si verificano questo tipo di fenomeni. Tuttavia rimane una parte molto sana di persone che fa questo tipo di interventi, a prescindere e nonostante tutto. Secondo me rimarrà sempre questa fetta perché è un linguaggio talmente forte che comunque cattura le persone e spinge sempre qualcuno a prendersi su e cominciare. È chiaro che fino agli ’90 nessuno iniziava pensando di farlo diventare un lavoro, un po’ come il rap e questa differenza è abbastanza importante, modifica molte prospettive ma non è sempre e necessariamente un male che si possa pensare di farne una fonte di reddito.

 

Partendo dal tuo impegno nel promuovere, riconoscere e preservare l’arte urbana, con i propri Conservanti Naturali per Esterni, citando Collettivo Fx. Quali sono questi conservanti?

Sì, è da diversi anni che con Collettivo FX stiamo lavorando sulla documentazione. Io mi riferisco a lavori realizzati senza permesso che nascono con la consapevolezza che esistono per un breve periodo. La modalità per conservare esporre e vendere questo genere di opere, quindi inserirle all’interno del mercato è attraverso fotografia, video e documentazione varia, come bozzetti o altro; questo approccio permette anche di svincolarsi da un modo coloniale di intendere l’arte per cui si rapina, si stacca e si porta da un’altra parte decontestualizzandola e snaturandola.

Un sistema per cui gli artisti sono obbligati a sacrificare un’espressione su superfici e per contesti in cui non centrano niente. Questo porta a parlare di street art o writing in esposizioni su tele e carte.

La persone che continuano a odiare il writing per strada perché le tasse vengono usate per cancellare “vandalismi e degrado” poi non vengono stimolati a ragionare sul fatto che quel tipo di estetica che cercano nelle gallerie è la stessa che trovano gratuitamente per strada.

Sto facendo queste riflessioni anche per cercare di contestare le politiche di decoro urbano che stanno finendo per diventare parte integrante del grande entusiasmo che c’è per il festival di muralismo contemporaneo. Perché si continuano a promuovere degli eventi che servono a riqualificare dei quartieri attraverso l’arte e si continuano a contrapporre i murales, che il più delle volte, sono fatti da writers o ex writers, street artist o ex street artist, tutta gente che si è formata dipingendo illegalmente e vengono sfruttati per sostenere che tutto quello che viene fatto illegalmente è vandalismo.

L’utilizzo della documentazione serve anche per stimolare questo tipo di ragionamento che non dovrebbe essere così difficile: ciò che la legge considera vandalismo, può comunque essere arte… il mondo dell’arte ha concettualmente sdoganato cose ben più complesse riguardo al tema “cosa è arte”.

Nel costruire una critica si cerca anche di trasferire l’arte di strada all’interno di musei, collezioni, fondazioni: la documentazione permette di svincolarsi dall’idea di conservare la reliquia o l’applicare protettivi di plastica o vernice su opere per loro natura effimere, operazioni per me anticulturali, che vanno contro la natura dell’opera. Quello che stiamo cercando di fare, attraverso mostre, dibattiti, scritti e conferenze è di diffondere questo punto di vista.

 

È contraddittorio che nell’epoca del consumo prȇt-à-porter, fatta di vestiti, mobili e oggetti vari realizzati per una breve durata si voglia mettere sotto teca l’arte urbana.

No, secondo me non è contraddittorio perché siamo nell’epoca in cui si dà importanza a qualcosa e cinque secondi dopo a un’altra, questo perché se la smettiamo di consumare l’economia precipita; lo abbiamo visto anche durante il lockdown, siamo vincolati a un sistema non sostenibile. Dall’altra parte si dà importanza a degli oggetti per un fine meramente speculativo, pensiamo a Supreme, o ai vinili in tiratura limitata che sono tornati in voga. Lo stesso coi libri che compro anche io, ne sono ormai schiavo, collezionismo compulsivo di pubblicazioni.

Questo discorso è molto affine alla produzione artistica degli ultimi 60 anni che vede l’arte soprattutto come un bene per differenziare gli investimenti, ovviamente per redditi di un certo tipo. Per le persone normali l’arte è da guardare sui cellulari o se va bene si vanno a vedere una mostra, ma difficilmente investono perché riconoscono il valore dell’atto creativo.

Oggi per un reddito decoroso sui 1.500/2.000 euro al mese, comprare un disegno originale per 700, 800,1000 euro è quasi impensabile: le persone “normali” se non sono appassionate d’arte e devono arredare casa, si comprano un poster all’Ikea.